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Forse dopo l’esperienza di poco prima desiderava che il telefono fosse solo un oggetto inanimato in fondo a una tasca. Provò a chiamare il numero di John Kortighan ma il cellulare continuava a suonare senza che nessuno rispondesse.

E a ogni squillo Vivien perdeva un anno di vita.

Mise il lampeggiante sul tetto e si staccò dal marciapiede, facendo lamentare i pneumatici sull’asfalto. Non voleva telefonare al numero della comunità, perché preferiva non mettere in allarme i ragazzi e farli prendere dal panico. Né poteva chiamare Sundance, perché agli ospiti di Joy non era concesso di avere un telefono mobile.

Mentre risaliva le strade alla massima velocità consentita dal traffico, Vivien si rivolse a Russell, che si teneva aggrappato con la mano destra al sostegno sopra il finestrino. L’impegno nella guida in quel momento era un semplice fatto animale, una questione di gesti abituali, di nervi e di riflessi.

La curiosità che sentiva dentro era uno dei pochi tratti umani che le erano rimasti.

«Allora, che hai trovato?»

«Non è meglio se pensi a guidare, ora?»

«Riesco a guidare e ad ascoltare nello stesso tempo.»

Russell parve rassegnarsi a sostenere quella prova, cercando di essere il più sintetico possibile.

«Non ti so nemmeno bene spiegare come ci sono riuscito, sta di fatto che sono risalito al nome di questo Matt Corey. Era proprio il Little Boss della foto che abbiamo visto a Hornell. È stato un compagno d’armi di Wendell Johnson in Vietnam. Per anni Matt Corey è stato ritenuto morto mentre invece aveva assunto l’identità del suo amico.»

Vivien fece la domanda che più le stava a cuore.

«E il figlio?»

«Non sta più a Chillicothe. Il suo nome è Manuel Swanson. Non so dove sia ora. Ma a suo tempo aveva mostrato delle velleità artistiche.»

Sollevò il manifesto arrotolato che teneva nella mano sinistra.

«E io sono riuscito a recuperare una sua locandina.»

«Fa’ vedere.»

Durante tutto il suo discorso Russell non era riuscito a staccare gli occhi dalla strada, dove TXC60 procedeva in una specie di slalom fra le altre vetture in movimento, che rallentavano e accostavano per favorire il loro passaggio.

La sua protesta suonò energica ma non impaurita.

«Ma sei matta? Stiamo viaggiando a quasi cento miglia orarie. Ci schianteremo e faremo schiantare qualcun altro.»

Vivien alzò la voce.

«Fa’ vedere, ti ho detto.»

Forse troppo. Lo aveva già fatto una volta e se ne era pentita.

Di malavoglia Russell srotolò il manifesto. Vivien lanciò una prima occhiata e lesse d’istinto la scritta rossa che stava alla base della foto. A lettere cubitali campeggiava un nome con un aggettivo.

Il fantastico

Mister Me

Tornò a occuparsi della guida. Approfittò di un tratto sgombro da veicoli per lanciare un secondo sguardo più lungo e più preciso alla foto. E il cuore le diede un colpo così forte da farle temere che un secondo lo avrebbe schiantato.

Si trovò a mormorare un’invocazione, col desiderio di andare avanti senza soluzione di continuità.

«Dio Signore. Dio Signore. Dio Signore.»

Russell arrotolò il manifesto e lo gettò sul sedile posteriore. Nonostante il rumore lo sentì cadere a terra dietro il suo sedile.

«Che c’è Vivien? Che succede? Mi vuoi dire dove stiamo andando?»

Per tutta risposta Vivien aumentò la velocità, schiacciando l’acceleratore a tavoletta. Si erano appena lasciati alle spalle il ponte sull’Hutchinson River e la macchina procedeva sulla 95 con tutta la rapidità che il suo motore le permetteva.

Per placare l’affanno che le stava distruggendo il petto, Vivien si decise a soddisfare la curiosità di Russell, mentre ancora pregava di essersi sbagliata. Ma sapeva che non sarebbe stata esaudita.

«Joy è una comunità per tossicodipendenti. Ci sta mia nipote, la figlia di mia sorella. La figlia di mia sorella che è morta stanotte. E ci sono delle bombe.»

Vivien sentì le lacrime arrivare, spinte dal dolore finalmente espresso. E un nodo salire alla gola e spezzarle la voce. Si asciugò gli occhi con il dorso della mano.

«Maledetto.»

Russell non chiese altre spiegazioni. Vivien si rifugiò nella sua acredine contro la vita per ritrovare lucidità. Dopo, quando tutto fosse finito, sapeva che quella rabbia si sarebbe trasformata in veleno, se non fosse riuscita a sputarla. Ma adesso ne aveva bisogno, perché era diventata la sua stessa forza.

Quando arrivarono a Burr Avenue, Vivien rallentò e tolse il lampeggiante, per non essere preceduta da luci e sirene. Lanciò uno sguardo a Russell. Stava seduto in silenzio al suo posto, senza timore e senza invadere quello che per il momento era uno spazio riservato solo a lei. Lo apprezzò moltissimo. Era un uomo che sapeva parlare ma soprattutto capiva quando era il caso di tacere.

Imboccarono la strada sterrata che portava a Joy. Contrariamente alle altre volte, non portò la Volvo fin nel parcheggio. Accostò sulla destra, in una piazzola protetta alla vista da un gruppo di cipressi.

Vivien scese dalla macchina. Russell la imitò.

«Aspettami qui.»

«Nemmeno per sogno.»

Quando vide che era determinato e che per nessuna ragione al mondo sarebbe rimasto in attesa presso l’auto, Vivien si rassegnò. Tirò fuori la pistola e mise il colpo in canna. Quel gesto per lei abituale, quel gesto che era la sua sicurezza, fece passare un’ombra sul viso di Russell. La rimise nel fodero.

«Stai dietro a me.»

Vivien si avvicinò alla casa seguendo un percorso alternativo alla strada che terminava nel cortile. Attraverso i cespugli, nascosti dalla vegetazione, arrivarono sul fronte della costruzione costeggiando il giardino. Vivien vide apparire la facciata familiare di Joy e provò una fitta di angoscia. Ci aveva portato sua nipote piena di fiducia. E adesso, quella casa dove tanti ragazzi stavano trovando una nuova speranza di vita, poteva trasformarsi da un momento all’altro in un luogo di morte. Aumentò il passo e la cautela. Vicino alla costruzione c’erano due ragazzi seduti su una panchina.

Vivien vide che erano Jubilee Manson e sua nipote.

Restando al riparo dei cespugli, si sporse e agitò un braccio per richiamare la sua attenzione. Non appena ci riuscì, invocò il suo silenzio portandosi il dito indice davanti alla bocca.

I due ragazzi si alzarono e la raggiunsero. Il suo gesto imperioso e il suo atteggiamento fecero d’istinto abbassare la voce a Sundance.

«Che c’è zia, che succede?»

«Stai in silenzio e ascoltami. Comportati in un modo normale e fai quello che ti dico.»

Sua nipote capì subito che non si trattava di uno scherzo. Vivien ritenne opportuno estendere le istruzioni anche all’altro ragazzo.

«Fate quello che vi dico, tutti e due. Radunate tutti i ragazzi e andate il più lontano possibile dalla casa. Mi avete capito? Il più lontano possibile.»

«Va bene.»

«Dov’è padre McKean?»

Sundance indicò l’abbaino.

«Nella sua camera, con John.»

«Oh, no.»

Come per imprimere forza a quella istintiva esclamazione, inatteso e secco, dalla casa giunse il rumore inconfondibile di uno sparo. Vivien si alzò di scatto in piedi. Nella sua mano apparve la pistola, come se i due movimenti fossero per natura collegati fra loro.

«Andate via. Correte più che potete.»

Vivien corse veloce verso la casa. Russell la seguì. Sentiva i loro passi scricchiolare sulla ghiaia e in quel momento le sembrò un rumore insostenibile. Superò la porta a vetri e si trovò davanti un gruppo di ragazzi che guardavano verso la sommità delle scale, da dove era arrivato lo sparo.

Facce interdette. Facce curiose. Facce spaventate nel vederla entrare con la pistola puntata. Nonostante la conoscessero, Vivien ritenne opportuno qualificare la sua presenza in un modo che in quel momento ispirasse loro fiducia.