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«Che significa questo?»

Vivien, come tutti gli altri del resto, rimase a bocca aperta.

La prima pagina era tutta occupata da un enorme titolo.

LA VERA STORIA DI UN FALSO NOME

di

Russell Wade

Sotto c’erano due foto, ben chiare nonostante la stampa sempre precaria dei quotidiani. Nella prima, un ragazzo reggeva in braccio un grosso gatto nero. Nella seconda, John Kortighan, ripreso di tre quarti, era seduto su uno sgabello e stringeva in mano una pistola. Volgeva uno sguardo vuoto e assente verso un punto alla sua destra.

Lo sguardo di tutti i presenti si girò con un sincronismo perfetto verso Russell, che come al solito aveva scelto la sedia più defilata. Sentendosi osservato, un’espressione innocente si dipinse sul suo viso.

«Avevamo un accordo, no?»

Vivien si trovò a sorridere. In effetti era vero. Era nel suo diritto e nessuno a quel punto poteva accusarlo di aver contravvenuto alla parola data. Tuttavia, guardando la pagina del giornale, le era venuta una curiosità. Decise di soddisfarla, per lei e per tutti i presenti.

«Russell, c’è una cosa che mi piacerebbe sapere.»

«Dimmi.»

«Come hai fatto ad avere quella foto di John, se per tutto il tempo in cui siamo stati insieme non ti ho mai visto con una macchina fotografica in mano?»

Con un viso compito, Russell si alzò in piedi e si avvicinò alla scrivania.

«C’è una cosa che ho avuto in eredità da mio fratello. Lui mi ha insegnato come e quando usarla.»

Mise una mano in tasca e la estrasse chiusa a pugno. Poi stese il braccio in avanti. Quando aprì le dita e permise a tutti di vedere quello che stringevano, Vivien riuscì a stento a trattenersi dal ridere. Davanti ai loro occhi, Russell teneva sul palmo una macchina fotografica in miniatura.

LA STORIA VERA DI UN FALSO NOME

Al funerale di mia madre pioveva e Vivien mi teneva la mano.

Mentre sentivo la pioggia battere sull’ombrello, ho visto la bara scendere nella fossa del piccolo cimitero di Brooklyn dove già stanno i miei nonni, con il rimpianto di non aver mai saputo davvero chi era Greta Light. Ma credo che ci riuscirò nel tempo, grazie al ricordo di tutte le parole che ci siamo dette e dei giochi che abbiamo fatto e dei momenti sereni che abbiamo vissuto. Anche se io ho provato a rovinare tutto, potrò farlo con l’aiuto di mia zia, che è una donna forte e incredibile nonostante le lacrime che le uscivano dagli occhi, fragili come quelle di chiunque davanti alla morte.

Il prete ha parlato di polvere e di terra e di ritorni.

Quando l’ho visto, quando ho sentito quelle parole, il mio pensiero è corso a padre McKean e a ogni cosa che ha costruito per me e per altri ragazzi come me. È stato terribile sapere cosa c’era dietro al suo sguardo, quello che è stato capace di fare, scoprire come il male riesca a raggiungere posti che dovrebbero essergli preclusi.

Mi hanno spiegato che la colpa delle sue azioni non va fatta risalire alla sua volontà, ma solo a quella parte di lui che era preda di qualcosa di malvagio di cui non aveva il controllo.

Come se dentro un solo corpo avesse due anime diverse.

Non è stato facile accettare. È stato facile capire, perché l’ho provato sulla mia pelle.

Ho visto quella parte malata scendere nella fossa insieme al corpo di Greta Light, mia madre. Due parti corruttibili, destinate a tornare alla terra e ridiventare polvere. Lei e padre McKean, la loro essenza viva e vera, sarà sempre vicina a me e alla persona che diventerò. Mentre guardavo gli occhi di Vivien, attraverso il dolore e le lacrime, mi sono accorta di avere intrapreso la strada giusta.

Mio padre non era presente al funerale.

Mi ha telefonato dicendo che stava dall’altra parte del mondo e che non faceva in tempo a tornare. Una volta ne avrei sentito la mancanza. Forse avrei pianto. Ora ho cose più importanti per cui versare lacrime. Adesso questa assenza è solo un’altra scatola vuota di una lunga serie di scatole vuote, che hanno smesso di essere una brutta sorpresa da quando ho capito che non mi interessa scoprire quello che c’è dentro.

Io ho una famiglia. È lui che ha scelto di non farne parte.

Quando tutto si è concluso, mentre già la gente si stava allontanando, sono rimasta sola con Vunny davanti alla terra smossa di fresco, che sotto la pioggia sapeva di muschio e di rinascita.

A un certo punto lei ha girato la testa e io ho seguito il suo sguardo.

In piedi sotto la pioggia c’era un uomo alto, senza cappello e senza parapioggia, con un impermeabile scuro. L’ho riconosciuto subito. Era Russell Wade, quel tipo che ha seguito con lei le indagini e che sta pubblicando quella serie di articoli sul «New York Times» dal titolo La vera storia di un falso nome.

In passato è apparso sui giornali come protagonista di storie parecchio discutibili. Adesso sembra aver trovato il modo di ribaltare tutto. Questo significa che qualsiasi cosa può cambiare, quando meno te lo aspetti e se davvero lo vuoi. Vivien mi ha dato l’ombrello da tenere e sotto l’acqua battente l’ho vista avvicinarsi a lui.

Hanno parlato brevemente e poi quell’uomo si è allontanato. Mentre se ne andava ho visto mia zia restare in piedi a guardarlo, con la pioggia che le cadeva sul viso a levare il sale dalle lacrime.

Quando è tornata da me sono riuscita a leggerle una nuova tristezza negli occhi, differente da quella per la morte della mamma.

Le ho stretto la mano e lei ha capito. Sono certa che prima o poi ne parleremo.

Adesso sono qui, ancora a Joy, seduta nel giardino, sotto un cielo che non ha più pioggia. Davanti a me una striscia d’acqua riflette il sole e mi sembra un buon presagio. Anche se la casa in questo momento sembra popolata da fantasmi, sono certa che in poco tempo torneremo a parlare fino a quando non impareremo di nuovo a sorridere. Qui ho capito molte cose, nel modo più semplice. Le ho imparate giorno per giorno. Mentre cercavo di capire i ragazzi che mi vivevano accanto, credo di avere iniziato a conoscere me stessa.

Ho saputo che la comunità non smetterà di esistere, grazie all’interessamento del governo e di molta altra gente che si è fatta avanti.

Anche se Vivien mi ha proposto di andare a vivere con lei, io ho deciso che in futuro mi fermerò qui, a dare una mano, se lo vorranno. Non ho più bisogno di Joy ma mi illudo che Joy abbia bisogno di me.

Mi chiamo Sundance Green e domani compio diciotto anni.

Premo il pulsante dell’interfono e la voce della mia segretaria arriva con l’efficienza che la distingue.

«Dica, signor Wade.»

«Per un quarto d’ora non mi passi telefonate.»

«Come desidera.»

«Anzi, facciamo mezz’ora.»

«Molto bene. Buona lettura, signor Wade.»

C’è una nota divertita nella sua voce. Credo abbia capito perché mi sono preso questo tempo. D’altronde è lei che poco fa ha portato la copia del «New York Times» che adesso ho appoggiata davanti a me sulla scrivania.

In prima pagina c’è un titolo con caratteri che si vedrebbero anche da un aereo.

La vera storia di un falso nome – Terza parte.

Ma quello che mi interessa di più è il nome dell’autore.

Inizio a leggere l’articolo e mi bastano un paio di colonne per accorgermi che è dannatamente buono. Sono così sorpreso che mi riservo di sentirmi orgoglioso in un secondo tempo. Russell ha la capacità di attirare il lettore senza via di scampo. La storia è senza dubbio molto avvincente ma devo dire che lui la sa raccontare in modo magistrale.

La luce dell’interfono si accende e la voce della segretaria arriva a sorpresa.

«Signor Wade…»