— Allora perché non prende una sedia e si mette comodo? Io posso parlargliene. — Abbassò la voce. — Sa, io sono già morta una volta.
— Scusi? — Diavolo, gli era sembrata così lucida…
— Non mi guardi così, Peter. Non sono pazza. Si sieda. Coraggio, si sieda. Le racconterò quel che è avvenuto.
Peter annuì appena, senza sbilanciarsi, e avvicinò al letto una sedia di plastica.
— È successo quarant’anni anni fa — disse Mrs. Fennell, girando gli occhi per guardarlo. — Da poco tempo mi era stato diagnosticato il diabete. Per vivere dipendevo dall’insulina, ma ancora non mi ero resa conto di quanto avrei dovuto stare attenta. Mio marito Kevin era uscito a far compere. Io avevo avuto la mia iniezione mattutina di insulina, ma ancora non avevo fatto colazione. Suonò il telefono. Era una mia conoscente, che aveva il vizio di chiacchierare per ore, e la ascoltai senza interromperla. Dopo un po’ di tempo mi accorsi che stavo sudando e avevo mal di capo, ma non volli dirle nulla. Poi il mio cuore cominciò a battere sempre più forte, mi tremavano le braccia, e mi si confondeva la vista. Ero sul punto di scusarmi con questa donna, per riattaccare il telefono e andare a mangiare qualcosa, quando ebbi un collasso. Era una reazione insulinica. Ipoglicemia.
Benché il volto di lei fosse inespressivo, irrigidito dalle paresi, la sua voce acquistò un’improvvisa vivacità. — Di colpo — disse, — mi trovai fuori dal mio corpo. Potevo vedere me stessa dall’alto, distesa lì sul pavimento di cucina. Continuai a fluttuare sempre più in alto, finché tutto si trasformò in un tunnel, un lungo tunnel a spirale. E alla fine di quel tunnel c’era una luce bianca, intensa e pura. Era molto viva, ma non abbagliava lo sguardo. Su di me scese una sensazione di calma e di pace. Era meraviglioso, era un’accettazione incondizionata di quello che sarebbe accaduto dopo, come un grande amore che mi avvolgesse. Mi trovai a muovermi verso quella luce.
Peter annuì impercettibilmente. Non sapeva cosa dire. Mrs. Fennell continuò: — Poi nei contorni di quella luce apparve una figura. Dapprima non la riconobbi, ma d’un tratto vidi che ero io. Solo che non ero io; era una persona che mi somigliava molto, però non ero io. Deve sapere che quando nacqui avevo una sorella gemella, che fu chiamata Mary, ma che morì pochi giorni dopo la nostra nascita. Io compresi che quella era Mary, venuta ad accogliermi. Lei fluttuò verso di me, mi prese per mano, e insieme volammo lungo il tunnel verso quella luce.
«Prima di arrivarci cominciai a vedere immagini della mia vita passata, come se fossero scene di un film, immagini di me con i miei genitori, di me e di mio marito, di me che lavoravo in ufficio o andavo fuori con le amiche. E Mary e io guardavamo queste scene dall’esterno, giudicando le situazioni in cui m’ero comportata bene e quelle in cui m’ero comportata male. Non era un giudizio come davanti a un tribunale, però sembrava importante che io capissi tutto e che vedessi gli effetti delle mie azioni sugli altri. Vidi me stessa che giocavo nel cortile della scuola, che imbrogliavo a un esame, che lavoravo come volontaria in un ospedale da campo, e in una quantità di altre scene, oh, tutte così vivide e incredibilmente piene di particolari nitidissimi. E intanto ci avvicinavamo sempre più a quella luce calda e meravigliosa.
«Poi, ad un tratto, questo finì. Mi sentii tirata indietro e in basso. Io non volevo lasciare la mano di Mary… l’avevo già perduta una volta, dopotutto, e non ci era mai stata data la possibilità di conoscerci… ma le sue dita scivolarono via dalle mie, ed io volai all’indietro, lontano dalla luce, finché di colpo mi ritrovai nel mio corpo. Mi resi conto che c’era gente intorno a me. Da lì a poco aprii gli occhi e vidi un uomo in uniforme. Un paramedico. Aveva una siringa in mano. Mi aveva fatto un’iniezione di glucagon. Stava dicendo che fra poco mi sarei sentita meglio, e che tutto sarebbe andato bene.
«La donna con cui avevo parlato al telefono… si chiamava Mary anche lei, ma questa era una coincidenza… aveva finalmente capito che mi ero sentita male e aveva chiamato un’ambulanza. I paramedici avevano dovuto scassare la porta d’ingresso. Se fossero arrivati qualche minuto più tardi, me ne sarei andata davvero.
«Perciò, Peter, io so com’è la morte. E non ne ho paura. Tutto il mio atteggiamento verso la vita è cambiato, dopo questa esperienza. Ho imparato a vedere le cose in una prospettiva diversa, a prenderle come vengono. E anche se ora so che mi restano pochi giorni, non ho paura. Io so che là in quella luce c’è il mio Kevin che mi aspetta, e anche Mary.
Peter aveva ascoltato con attenzione quel resoconto. Aveva già sentito storie del genere, naturalmente, e gli era anche capitato di leggere qualche capitolo del famoso La Vita Dopo La Morte, di Moody, quando la neve lo aveva bloccato nel cottage di certi suoi parenti e la scelta era solo fra quello e un libro su come i pianeti influiscono sulla vita sentimentale. A quel tempo non sapeva come prendere storie simili, e ancora adesso preferiva non esprimere alcuna opinione.
— Ha parlato a qualche dottore di quell’avvenimento? — le chiese.
Peggy Fennell sbuffò. — Quei signori entrano qui come se fossero dei maratoneti e la mia camera una tappa del percorso. Perché mai dovrei condividere con loro le mie esperienze più intime?
Peter annuì.
— Ad ogni modo — disse Mrs. Fennell, — la morte avviene così come le ho detto, Peter.
— Io, mmh… ci terrei a…
— Lei vuole ancora fare il suo esperimento, però, è così?
— Be’, sì.
Mrs. Fennell mosse leggermente la testa, il cenno più vicino a un assenso che riuscisse a fare. — E va bene — disse infine. — Io mi fido di lei, Peter. Mi sembra una brava persona, e la ringrazio per avermi ascoltato. Porti pure la sua attrezzatura.
Era stata una settimana d’inferno, dal giorno in cui Cathy gli aveva fatto la sua confessione. Non parlavano molto, e quando lo facevano era solo per scambiarsi poche parole su cose come l’esperimento di Peter con il superEEG. Niente di personale, niente che riguardasse direttamente loro due. Solo argomenti poco impegnativi per riempire alcuni dei lunghi malinconici silenzi.
Il sabato pomeriggio successivo, dopo pranzo, Peter sedette sul divano del soggiorno e prese un libro. Non un disco da inserire nel lettore, tanto per cambiare, bensì un vero libro di onesta carta stampata, un tascabile.
Di recente Peter aveva scoperto i vecchi racconti di Spenser, scritti da Robert B. Parker. C’era qualcosa di affascinante nella fiducia totale e indiscutibile che univa Spenser e Hawk, e così anche nella meravigliosa onestà del rapporto fra Spenser e Susan Silverman.
Parker non aveva mai dato a Spenser un nome di battesimo, ma Peter pensava che il suo — che significava «pietra» — sarebbe stato una buona scelta. Di certo Spenser era duro e incrollabile come la pietra, cosa che lui non poteva dire di sé.
Sulla parete dietro il divano c’era una cornice con una stampa di Alex Colville. Un tempo Peter aveva pensato che i dipinti di Colville fossero troppo statici, ma con gli anni aveva imparato ad apprezzarli, e ora trovava quel quadro — un uomo seduto sotto una veranda, con un vecchio cane da caccia accovacciato ai suoi piedi — pieno di significato. Aveva finalmente capito che nell’arte di Colville l’assenza di movimento serviva a esprimere la solidità di certi elementi della vita: quelle erano le cose che non dovevano cambiare, le cose che contavano.
Peter non sapeva ancora come prendere quella situazione, non aveva la minima idea del genere di futuro che attendeva lui e Cathy. Si rese conto di aver appena letto una scena buffa — Spenser aveva evitato una serie di domande incalzanti di Quirk ribattendo con arguti motti di spirito, mentre Hawk assisteva sogghignando senza intervenire — ma questo non lo aveva divertito come avrebbe dovuto. Peter mise un segnalibro fra le pagine e depose il tascabile accanto a sé.