Per un momento fu nuda. Il viso arrossì per l’imbarazzo; non c’era nessuno qui a vederla nuda come nel suo bagno prima che ricreasse velocemente il vestito scuro, ma avrebbe dovuto ricordare come i pensieri sporadici influivano sulle cose in questo luogo, specialmente quando avevi abbracciato il Potere. Elayne e Nynaeve pensavano che fosse ben informata. Egwene conosceva alcune regole del Mondo Invisibile, e sapeva che ce ne erano centinaia, migliaia che ancora non conosceva. In qualche modo doveva impararle, se doveva essere la prima Sognatrice della Torre dopo Corianin.
Guardò più da vicino l’enorme teschio. Era cresciuta in un villaggio di campagna, e sapeva che aspetto avevano le ossa degli animali. In fondo non erano quattro orbite oculari. Due sembravano essere per delle zanne di qualche tipo, da entrambi i lati del punto in cui si era trovato il naso. Una specie di cinghiale mostruoso forse, anche se non assomigliava a nessun teschio suino che avesse mai visto. Emanava una sensazione di antichità estrema.
Con il Potere che la colmava, poteva percepire cose simili, in questo luogo. Il consueto accrescimento dei sensi era con lei. Avvertiva le più piccole crepe nelle lavorazioni a sbalzo dorate che ricoprivano il soffitto quindici metri sopra la sua testa e la sottile lucidatura delle pietre bianche del pavimento. Spaccature infinitesimali, invisibili all’occhio, propagate anche su tutto il pavimento.
La stanza era enorme, forse lunga duecento passi e larga quasi la metà, con file di sottili colonne bianche e quella fune che si estendeva ovunque tranne dove c’erano le porte, con archi dalla doppia punta. Altre funi circondavano i piedistalli di legno lucidato e le vetrine in cui erano custoditi altri oggetti da esposizione. Proprio sotto al soffitto si snodava un’elaborata serie di piccole sculture che traforavano il muro, lasciando entrare molta luce. Evidentemente stava sognando di essere a Tanchico durante il giorno.
‘Una grande mostra di manufatti di Epoche da lungo passate, dell’Epoca Leggendaria ed Ere antecedenti, aperta a tutti, anche alla gente comune, tre giorni al mese e in quelli di festa’ aveva scritto Eurian Romani. Aveva parlato in modo ardente dei pezzi di inestimabile valore di figure di cuendillar, sei, in una teca di vetro al centro della sala, sempre sorvegliate da quattro guardie personali del Panarca quando il pubblico poteva entrare, e aveva proseguito per due pagine parlando delle ossa di animali favolosi. ‘Mai visti vivi dagli occhi di un uomo’. Egwene poteva vederne alcune. Da un lato della stanza c’era lo scheletro di qualcosa che assomigliava un po’ a un orso, se gli orsi avessero avuto due canini lunghi come il suo avambraccio. Dal lato opposto, vi erano le ossa di alcuni esili bestie a quattro zampe, con il collo così lungo che il teschio si trovava a metà strada dal soffitto. Ce ne erano altri, sparsi lungo le pareti della stanza, altrettanto fantastici. Tutti emanavano una sensazione di antichità tale da far sembrare la Pietra di Tear appena costruita. Chinandosi sotto la fune, Egwene camminò lentamente lungo la stanza, osservandola.
Una figura consumata di donna, all’apparenza svestita ma coperta dai capelli che le scendevano fino alle caviglie, non sembrava diversa dalle altre con cui condivideva la vetrina, ognuna non più grande della sua mano. Ma emanava un’impressione di calore che riconobbe. Era un angreal, ne era certa; si chiese perché la torre non era riuscita a portarlo via al Panarca. Un collare finemente snodato collegato a due braccialetti di metallo nero opaco, che si trovavano su un piedistallo per conto loro, la fecero rabbrividire; percepì oscurità e dolore associati a essi — un dolore molto antico e forte. Un oggetto d’argento in un’altra teca, come una stella a tre punte inscritta in un cerchio, era fatta di una sostanza che non conosceva; più morbida del metallo, graffiata e scavata, eppure anche più antica di tutte le ossa. Da dieci passi di distanza poteva percepire orgoglio e vanità.
Una cosa le sembrava familiare, anche se non avrebbe saputo dire perché. Riposta nell’angolo di una delle vetrine, come se chiunque l’avesse messa lì fosse incerto se valesse la pena di metterla in mostra, c’era la parte superiore di una figura spezzata scolpita in una pietra bianca lucente, una donna con una sfera di cristallo in una mano sollevata, il volto quieto e dignitoso, colmo di saggia autorità. Se fosse stata intera avrebbe forse raggiunto i trenta centimetri. Ma perché le sembrava così familiare? Sembrava quasi chiamare Egwene perché la raccogliesse.
Solo quando le dita di Egwene si strinsero attorno alla statuetta spezzata si accorse che aveva scavalcato la fune. Un gesto sciocco, visto che non so di cosa si fratta, pensò, ma era già troppo tardi.
Mentre la mano la stringeva il Potere sì rigonfiò dentro di lei, passando dalla mezza figurina di nuovo a lei, avanti e indietro. La sfera di cristallo lampeggiava con incostanti, pallidi lampi e degli aghi le punzecchiarono il cervello con ogni lampo. Con un singulto di agonia, rilasciò la presa e si portò entrambe le mani alla testa.
La sfera di cristallo andò in frantumi quando la figura colpì il suolo e gli aghi scomparvero, lasciandole solamente ricordi opachi del dolore e una nausea che le faceva tremare le ginocchia. Strinse forte gli occhi per non vedere la stanza dilatarsi. Quella figura doveva essere un ter’angreal, ma perché le aveva fatto male quando l’aveva solamente toccata? Forse perché era rotta; forse una volta rotta non poteva fare ciò per cui era stata creata. Egwene non voleva nemmeno pensare allo scopo originale dell’oggetto; collaudare i ter’angreal era pericoloso. Quantomeno adesso era rotta definitivamente. Almeno in questo luogo. Perché sembrava chiamarmi? si chiese.
La nausea svanì e riaprì gli occhi. La figura era di nuovo a posto sullo scaffale, integra come lo era stata la prima volta che l’aveva vista. Nel Tel’aran’rhiod accadevano strane cose, ma questa era più strana di quanto volesse vedere. E non era il motivo per cui era venuta. Prima doveva trovare una via d’uscita dal Palazzo del Panarca. Scavalcando di nuovo la fune si sbrigò a lasciare la stanza cercando di non correre.
Il palazzo naturalmente era privo di vita. Almeno umana. Pesci colorati nuotavano nelle fontane allegramente zampillanti nei cortili, ovunque si vedevano sentieri e balconate, delicate colonne schermate da lavorazioni in pietra intricate come merletto scolpito. Sull’acqua galleggiavano delle ninfee e dei fiori bianchi grandi come piatti. Nel Mondo dei Sogni i luoghi erano come nel cosiddetto mondo reale. Tranne per la gente. Elaborate lampade dorate si ergevano nei corridoi, con gli stoppini spenti, ma poteva percepire l’aroma dell’olio profumato. Con i piedi non sollevava un briciolo di polvere dai tappeti variopinti che certamente non potevano mai essere stati battuti, non qui.
Una volta aveva visto un’altra persona camminare di fronte a lei, un uomo che indossava un’armatura ornata, di placche dorate e maglia metallica, sottobraccio un elmetto a punta sormontato da piume bianche di airone. «Aeldra?» chiamò sorridendo. «Aeldra, vieni a guardarmi. Sono stato nominato capitano della Legione del Panarca. Aeldra?» L’uomo si avviò in un altro luogo, sempre chiamando, e di colpo non era più lì. Non un Sognatore. Nemmeno qualcuno che stesse usando un ter’angreal, come l’anello di pietra o il disco di ferro di Amico. Solo un uomo i cui sogni avevano toccato un luogo di cui non era al corrente, con pericoli che non conosceva. Persone morte inaspettatamente nel sonno spesso avevano sognato di trovarsi in Tel’aran’rhiod ed erano morte lì. L’uomo adesso ne era ben al di fuori, di nuovo nel mondo dei sogni ordinari.