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Quando Elaida aveva visto il giovane al’Thor, era stata Moiraine a farlo sparire. Moiraine lo aveva accompagnato, come anche gli altri due ta’veren, nello Shienar. Moiraine Damodred, l’amica più intima di Siuan Sanche quando erano entrambe novizie. Se Elaida fosse stata il tipo che scommetteva, avrebbe scommesso che nessun’altra nella Torre si ricordasse di quell’amicizia. Il giorno in cui furono elevate al rango di Aes Sedai, alla fine della Guerra Aiel, Siuan e Moiraine si erano allontanate l’una dall’altra, e da quel momento sì erano comportate quasi da estranee. Ma Elaida era un’Ammessa quando queste erano novizie, aveva dato loro lezioni, le aveva castigate per aver trascurato i doveri, e ricordava. Aveva difficoltà a credere che il loro complotto andasse così indietro nel tempo — al’Thor non poteva essere nato molto prima di allora — eppure era l’ultimo legame che le univa. Per Elaida era abbastanza.

Qualunque cosa avesse in mente Siuan doveva essere fermata. Tumulti e caos si moltiplicavano da ogni lato. Era certo che il Tenebroso si sarebbe liberato — il solo pensiero le provocò i brividi e strinse lo scialle con maggior forza — e la Torre doveva essere distante dagli affanni terreni per poter affrontare un tale evento. La Torre doveva essere libera di tirare le corde per far schierare unite le nazioni, libera dai problemi che avrebbe portato Rand al’Thor. In qualche modo, doveva essere fermato dal distruggere Andor.

Elaida non aveva rivelato a nessuno quel che sapeva di al’Thor. Intendeva vedersela con lui silenziosamente, se possibile. Il Consiglio della Torre già parlava di sorvegliare, o addirittura guidare, questi ta’veren; ma non avrebbe mai acconsentito a disporre di loro, di quell’uno in particolare, come andava fatto. Per il bene della Torre. Per il bene del mondo.

Elaida emise un verso gutturale, prossimo a un ruggito. Siuan era sempre stata caparbia, anche da novizia, aveva sempre avuto un’alta opinione di se stessa per essere la figlia di un povero pescatore, ma come aveva potuto essere così sciocca da immischiare la Torre in questa vicenda senza mettere al corrente il Consiglio? Sapeva cosa sarebbe accaduto bene quanto chiunque altra. Poteva essere peggio solo se...

Elaida si fermò di colpo, guardando nel vuoto. Era possibile che questo al’Thor potesse incanalare? O uno degli altri? Molto probabilmente doveva essere al’Thor. No. Certamente no. Nemmeno Siuan avrebbe toccato uno di quelli. Lei non poteva. «Chi sa cosa potrebbe fare quella donna?» borbottò. «Non è mai stata adatta a essere Amyrlin Seat.»

«Parli da sola, Elaida? So che voi Rosse non avete amici al di fuori della vostra Ajah, ma di certo hai qualche amica all’interno di essa.»

Elaida voltò il capo per guardare Alviarin. L’Aes Sedai dal collo di cigno ricambiò lo sguardo con l’intollerabile freddezza che era il segno distintivo dell’Ajah Bianca. Non c’era amore fra le Rosse e le Bianche; si erano trovate agli estremi opposti del Consiglio della Torre per migliaia di anni. Le Bianche erano dalla parte delle Azzurre, e Siuan era appartenuta alle Azzurre. Ma le Bianche si vantavano per la loro logica imparziale.

«Cammina con me» la invitò Elaida. Alviarin esitò prima di affiancarla.

All’inizio la Sorella Bianca sollevò un sopracciglio denigratorio riguardo quanto Elaida aveva esposto nei confronti di Siuan, ma prima della fine aggrottò la fronte, concentrata. «Non hai nessuna prova di nulla di... inappropriato» osservò quando finalmente Elaida tacque.

«Non ancora» rispose Elaida con fermezza, concedendosi un sorriso teso quando Alviarin annuì. Era un inizio. In un modo o nell’altro avrebbe fermato Siuan prima che potesse distruggere la Torre.

Nascosto in un gruppo di alte ericacee sopra la riva nord del fiume Taren, Dain Bornhald si lanciò dietro le spalle il mantello bianco con il sole raggiato ricamato sul petto e sollevò il rigido tubo di cuoio del cannocchiale verso gli occhi. Una nuvola di piccolissimi mordimi, insetti quasi invisibili ma dal fiero morso, gli ronzavano attorno al viso, ma li ignorò. Nel villaggio di Taren Ferry, sull’altra riva del fiume, le case di pietra si ergevano su alte fondamenta contro le inondazioni che si verificavano ogni primavera. Gli abitanti del villaggio si affacciavano dalle finestre o aspettavano sulle verande per osservare i trenta cavalieri ammantati di bianco con indosso lucide placche metalliche e cotte di maglia. Una delegazione di uomini del villaggio si stava incontrando con i cavalieri. O meglio, stava ascoltando Jaret Byar, da quel che poteva vedere Bornhald, che era la cosa migliore.

Bornhald poteva quasi sentire la voce di suo padre. Lascia che credano che ci sia una possibilità, e qualche sciocco cercherà di coglierla. Poi ci saranno uccisioni, e qualche altro sciocco cercherà di vendicare il primo, così ci saranno altre uccisioni. Inculca il timore della Luce nelle loro teste fin dall’inizio, fagli sapere che non verrà fatto del male a nessuno se ubbidiscono e non avrai problemi.

Serrò la mascella al pensiero del padre, ora morto. Avrebbe Tatto qualcosa a riguardo, e presto. Era certo che solo Byar sapeva perché aveva accettato immediatamente questo comando, diretto verso un dimenticato distretto nell’entroterra di Andor, e Byar avrebbe tenuto a freno la lingua. Era stato fedele come un cane a suo padre, e adesso aveva trasferito tutta quella lealtà su Dain. Bornhald non aveva esitato a nominare Byar suo secondo quando Eamon Valda gli aveva affidato il comando.

Byar fece girare il cavallo e tornò verso il traghetto. Il traghettatore salpò immediatamente e iniziò a trainare la chiatta usando una robusta corda sospesa sulle acque vorticanti. Byar lanciò un’occhiata agli uomini che tiravano la corda; lo guardavano nervosi mentre camminavano pesantemente lungo la chiatta, quindi tornavano subito indietro a riprendere la gomena. Tutto sembrava a posto.

«Lord Bornhald?»

Bornhald abbassò il cannocchiale e voltò il capo. L’uomo dal volto duro che era apparso alle sue spalle era rigido, fissava dritto davanti a sé da sotto un elmetto conico. Anche dopo il difficile viaggio da Tar Valon — e Bornhald aveva spronato duramente la truppa per ogni chilometro — l’armatura splendeva come il mantello bianco candido con il sole raggiato.

«Sì, figlio Ivon?»

«Il centurione Farran mi ha inviato, mio signore. Si tratta dei Calderai. Ordeith ha parlato con tre di loro, mio signore, e adesso sono tutti e tre introvabili.»

«Sangue e ceneri!» Bornhald si girò di scatto e camminò a grandi passi fra gli alberi con Ivon alle calcagna.

Fuori dalla visuale del fiume, cavalieri ammantati di bianco riempivano gli spazi fra le ericacee e i pini, impugnando le lance con disinvolta familiarità, o con gli archi appoggiati sui pomi delle selle. I cavalli scalpitavano con impazienza e agitavano le code. I cavalieri attendevano con maggiore flemma; non sarebbe stato il primo guado di un fiume in un territorio sconosciuto, e stavolta nessuno avrebbe tentato di fermarli.

In un’ampia radura oltre gli uomini a cavallo c’era una carovana dei Tuatha’an, i Girovaghi, i Calderai. Circa cento carri trainati da cavalli, simili a piccole casette su ruote, che creavano uno stridente miscuglio di colori, rosso, verde, giallo e ogni altra tinta immaginabile in combinazioni che potevano piacere solo all’occhio di un Calderaio. Le persone stesse indossavano abiti che facevano apparire smorti i carri. Stavano seduti a terra in un largo gruppo, lanciando occhiate agli uomini a cavallo con un insolito calmo disagio; si sentì il flebile pianto di un bambino immediatamente consolato dalla madre. Non lontano i mastini morti erano già ricoperti di mosche. I Calderai non avrebbero alzato una mano nemmeno per difendersi, e i cani erano stati solo una dimostrazione, ma Bornhald non voleva correre rischi.