Il fabbro sospirò. Riconosceva di essere stato sconfitto. Sua moglie aveva chiaramente ammesso di essere favorevole all’idea e, adesso che ci pensava, c’erano dei vantaggi. La Nonnina non sarebbe vissuta in eterno e, tutto sommato, essere il padre dell’unica strega di tutta la zona non sarebbe stato male.
— Va bene — disse.
E così, mano a mano che l’inverno volgeva alla fine e cominciava la sua lunga e riluttante ascesa verso la primavera, Esk trascorse dei giorni di fila con Nonnina Weatherwax, per apprendere l’arte delle streghe.
Che consisteva principalmente di cose da ricordare.
Le lezioni erano molto pratiche: pulire il tavolo della cucina ed Erboristeria Fondamentale; pulire il recinto delle capre e Gli Usi dei Funghi; fare il bucato e L’Evocazione degli Dei Minori; badare al grosso alambicco di rame nel retrocucina e La Teoria e la Pratica della Distillazione. Al tempo in cui i venti caldi spiravano dall’Orlo e non restavano della neve che tracce melmose sul lato degli alberi volto verso il Centro, Esk sapeva preparare una gamma di unguenti, diversi liquori medicinali, una ventina di infusi speciali e un certo numero di pozioni misteriose che, secondo la Nonnina, lei avrebbe potuto imparare a usare a tempo debito.
La magia era proprio ciò che non aveva fatto.
— Tutto a tempo debito — ripeteva vaga la Nonnina.
— Ma s’intende che io sia una strega!
— Non sei ancora una strega. Nominami tre erbe buone per l’intestino.
Esk si mise le mani dietro la schiena, chiuse gli occhi e recitò: — Le cime fiorite della Grande Peahane, la polpa della radice dei Pantaloni del Vecchio, i gambi del Giglio d’Acqua, i baccelli del…
— Benissimo. Dove si trovano i cetrioli acquatici?
— Nelle torbiere e negli stagni, dalle montagne di…
— Bene. Stai imparando.
— Ma non è magia!
La Nonnina si sedette al tavolo di cucina.
— Come non lo è la maggior parte della magia. Si tratta soltanto di conoscere le erbe giuste, imparare a osservare il tempo, scoprire le usanze degli animali. E anche le usanze della gente.
— Tutto qui! — esclamò sconvolta la bambina.
— Tutto? È un tutto mica male - ribatte la vecchia. — Ma no, non è tutto. C’è dell’altro.
— Non puoi insegnarmelo?
— Tutto a suo tempo. Non è ancora il momento che tu vada a mostrarti.
— Mostrarmi? A chi?
Gli occhi della Nonnina si volsero rapidi alle ombre negli angoli della stanza.
— Lascia perdere.
Poi anche le ultime restanti tracce di neve erano scomparse e il vento primaverile soffiava impetuoso intorno alle cime dei monti. Nell’aria della foresta c’era il sentore di terriccio e di resina. I primi fiori precoci sfidavano le gelate notturne e le api cominciavano a svolazzare.
— Prendi le api, questa sì che è magia — sentenziò Nonnina Weatherwax.
Sollevò con precauzione il coperchio del primo alveare.
— Le api — continuò — vogliono dire idromele, cera, miele. Una cosa meravigliosa, le api. E perfino governate da una regina — aggiunse, con una nota di approvazione.
— Non ti pungono? — chiese la bambina, tirandosi un po’ indietro. Un nugolo di api uscì dal favo e sciamò oltre le pareti di legno grezzo della cassetta.
— Quasi mai — rispose la vecchia. — Volevi la magia. Guarda.
Infilò la mano nell’intricata massa degli insetti e dalla gola emise un suono debole ma stridulo e penetrante. La massa si spostò e una grossa ape, più lunga e grassa delle altre, le strisciò sulla mano, seguita da alcune operaie che la lisciavano e l’assistevano.
— Come ci sei riuscita? — chiese Esk.
— Ah, non ti piacerebbe saperlo?
— Sì, mi piacerebbe. Ecco perché te l’ho domandato. Nonnina — ribatté la bambina severamente.
— Credi mi sia servita della magia?
— No — rispose la piccola. — Credo soltanto che conosci un sacco di cose sulle api.
La Nonnina ridacchiò.
— Esatto. Naturalmente, questa è una forma di magia.
— Come, semplicemente conoscere le cose?
— Conoscere le cose che gli altri non sanno - dichiarò la Nonnina. Depose con precauzione la regina tra i suoi soggetti e richiuse il coperchio dell’alveare.
— E penso sia tempo che tu impari qualche segreto — aggiunse.
"Finalmente" pensò Esk.
— Ma anzitutto, dobbiamo presentare i nostri omaggi all’Alveare — dichiarò la strega, che riuscì a pronunciare la parola con la A maiuscola.
— Ma perché? — protestò Esk.
— Perché le streghe devono essere diverse, e ciò fa parte del segreto.
Sedettero su una panca scolorita davanti al muro del cottage rivolto verso il Bordo. Lì di fronte le Erbe erano già alte una trentina di centimetri, una collezione sinistra di pallide foglie verdi.
La Nonnina si accomodò sulla panca. — Bene. Sai il cappello nell’ingresso vicino alla porta. Va a prenderlo.
Esk ubbidì, entrò in casa e tolse dal gancio il cappello della vecchia. Era alto, a punta e. naturalmente, nero.
La Nonnina lo rigirò fra le mani e lo ispezionò con cura.
— Dentro questo cappello c’è uno dei segreti della nostra arte — disse in tono solenne. — Se non sai dirmi qual è, allora tanto vale che non ti insegni più niente. Perché, una volta che conosci il segreto del cappello, non puoi più tornare indietro. Dimmi cosa sai del cappello.
— Posso tenerlo in mano?
— Accomodati.
Esk guardò nel cappello. All’interno c’era un filo metallico per dargli una forma e due spilloni. E quello era tutto.
Non c’era nulla di particolarmente strano nel copricapo, eccetto il fatto che nel villaggio nessuno ne possedeva uno simile. Questo però non lo rendeva magico. Esk si morse un labbro, si vedeva già rimandata a casa in disgrazia.
Il cappello non emanava nulla di strano, né aveva delle tasche nascoste. Era semplicemente il tipico cappello delle streghe. La Nonnina lo indossava sempre quando andava nel villaggio, ma nella foresta portava soltanto un cappuccio di pelle.
La bambina cercò di ricordarsi dei frammenti di lezione che la vecchia le impartiva con parsimonia. "Non si tratta di ciò che sai tu, si tratta di ciò che gli altri non sanno." "La magia può essere una cosa giusta nel posto sbagliato, o una cosa sbagliata nel posto giusto." "Può essere…"
La Nonnina lo indossava sempre per andare al villaggio. Come pure il grande mantello nero, che di certo non era magico, perché era servito quasi tutto l’inverno da coperta per le capre, e lei lo lavava a primavera.
Nella mente di Esk cominciò a prendere corpo la risposta e non le piacque un granché. Somigliava a tante delle risposte della vecchia. Un semplice giochetto di parole. Lei diceva cose che uno aveva sempre saputo, ma in modo diverso così da sembrare importanti.
— Credo di saperlo — disse alla fine.
— Fuori, allora.
— In certo modo, sono due parti.
— Ebbene?
— E un cappello da strega perché lo porti tu. Ma tu sei una strega perché porti questo cappello. Uhm.
— E così… — la incalzò la Nonnina.
— E così la gente ti vede arrivare con il cappello e il mantello e sa che sei una strega ed è per questo che la tua magia funziona? — terminò Esk.
— E giusto — confermò la vecchia. — Si chiama "menteologia" — concluse. Si diede un colpetto sui capelli d’argento, tirati in una crocchia talmente compatta da spaccare la roccia.
— Ma non è reale! — protestò la bambina. — Questa non è magia, è… è…