— Ascolta. Se dai a una persona una bottiglia di giulebbe rossa contro la flatulenza, può anche fare effetto. Ma se vuoi che lo faccia di sicuro, allora lascia che sia la loro mente a farla funzionare. Digli che sono raggi di luna imbottigliati in un vino fatato o roba del genere. Borbottaci sopra per un po’. Lo stesso succede per le maledizioni.
— Maledizioni? — disse Esk con voce debole.
— Già, maledizioni, ragazza mia, e non occorre che tu abbia l’aria tanto scioccata! Le pronuncerai anche tu, quando è necessario. Quando sei sola, e non hai nessuno per aiutarti, e…
Esitò, imbarazzata dallo sguardo interrogativo della bambina, e finì debolmente: — …e gli altri non ti mostrano rispetto. Devi lanciarla a voce alta, e che sia lunga e complicata. Devi improvvisarla, se, necessario, ma funzionerà a dovere. Il giorno dopo, quando si tagliano un dito o cadono dalla scala o il loro cane casca a terra morto, si ricorderanno di te. E la prossima volta si comporteranno meglio.
— Anche così, però, non sembra magia — insisté Esk, strisciando un piede nella polvere.
La Nonnina riprese: — Una volta ho salvato la vita di un uomo. Una medicina speciale due volte al giorno. Acqua bollita con un po’ di succo di bacca. Gli ho detto che l’avevo acquistata dai nani. Curare consiste in massima parte in questo, in realtà. Se ci si mettono d’impegno, la maggior parte delle persone guariscono dei loro malanni, basta che tu dia loro un interesse.
Batté sulla mano di Esk con la maggior grazia possibile. — Sei un po’ giovane per questo — disse — ma quando crescerai, scoprirai che non sono molti quelli che adoperano la loro testa. Anche tu — sentenziò.
— Non capisco.
— Sarei sorpresa se lo facessi — replicò brusca la vecchia. — Ma puoi dirmi il nome di cinque erbe efficaci per la tosse secca.
Finalmente era giunta la primavera. La Nonnina portava Esk a fare lunghe camminate, che spesso duravano un giorno intero, fino a stagni nascosti o alle pendici delle montagne per raccogliere piante rare. Alla bambina piaceva, lassù sulle colline dove il sole picchiava forte ma l’aria tuttavia era gelida. Le piante crescevano folte, abbarbicate al terreno.
Dalle vette più alte lo sguardo spaziava fino all’Oceano dell’Orlo, che correva intorno ai limiti del mondo. Nella direzione opposta la catena delle Ramtop si snodava in distanza, ammantata nelle nevi eterne. Essa arrivava fino al centro del mondo dove, per generale convinzione, gli Dei vivevano su una montagna di roccia e di ghiaccio, alta sedicimila metri.
— Con gli Dei non c’è problema — affermò la Nonnina mentre mangiavano il pranzo che si erano portate e contemplavano la vista. — Noi non diamo fastidio agli dei e gli dei non vengono a dare fastidio a noi.
— Conosci molti dei?
— Ho visto qualche volta gli dei del tuono e, naturalmente, Hoki.
— Hoki?
La Nonnina masticava il suo tramezzino. — Oh, lui è un dio della natura. A volta si manifesta come una quercia, o mezzo uomo e mezzo capra. Ma per lo più, io lo considero una gran seccatura. Lo trovi, naturalmente, soltanto nel profondo dei boschi. Suona il flauto. Malissimo, se vuoi saperlo.
Stesa a pancia sotto, Esk guardava le terre in basso. Dei calabroni svolazzavano sui cespugli di timo. Sentiva il sole caldo sulla schiena, ma lassù c’erano ancora tracce di neve sulle rocce dal lato a settentrione.
— Parlami delle terre là in basso — chiese pigramente.
La Nonnina guardò con aria di disapprovazione il paesaggio che si stendeva per migliaia di chilometri.
— Sono semplicemente altri luoghi — dichiarò. — Proprio come qui, solo differenti.
— Ci sono città e così via?
— Direi di sì.
— Non sei mai stata a vederle?
La Nonnina si appoggiò all’indietro e si sistemò con attenzione la sottana per esporre al sole diversi centimetri della sottogonna di flanella e lasciare che i suoi caldi raggi carezzassero le sue vecchie ossa.
— No — rispose. — Ci sono già abbastanza guai da queste parti senza andare a cercare in posti lontani.
— Una volta ho sognato una città — raccontò Esk. — Ci vivevano centinaia di persone e c’era un edificio con un grande cancello, ed era un cancello magico…
Sentì dietro di lei un rumore come di tessuto lacerato. La Nonnina si era addormentata.
— Nonnina!
— Uhm?
Esk rimase un momento a pensare, poi chiese astutamente: — Questo è un momento giusto per te?
— Uhm.
— Hai detto che mi avresti mostrato una vera magia, al momento giusto. E questo è un momento giusto.
— Uhm.
Nonnina Weatherwax aprì gli occhi e guardò il cielo. Che a quell’altezza era più scuro, più violaceo che azzurro. Pensò: "Perché no? Lei impara presto. Ne sa più di me dell’erboristeria. Quando avevo la sua età, il vecchio Garamer Tumulto mi aveva già insegnato a incarnarmi, mutarmi, spostarmi da un luogo all’altro a qualsiasi ora del giorno. Forse sono troppo cauta".
— Un pochino soltanto? — implorò la bambina.
La vecchia non sapeva decidersi, ma non gli venivano in mente altre scuse. "Sicuramente lo rimpiangerò", si disse. E non aveva tutti i torti.
— Va bene — dichiarò alla fine.
— Una magia vera? — insisté Esk. — Niente più erbe o "menteologia?"
— Una magia vera, come la chiami tu, sì.
— Un incantesimo?
— No. Un Prestito.
L’espressione della piccola era piena di aspettativa. Sembrava più animata, pensò la vecchia, di quanto l’avesse mai vista prima.
Scrutò le valli che si stendevano davanti a loro finché non trovò ciò che cercava. Un’aquila grigia volteggiava pigramente sopra una foresta azzurrognola in lontananza. In quel momento la sua mente era tranquilla. Avrebbe fatto benissimo al caso suo.
La chiamò piano e quella venne volteggiando verso di loro.
— La prima cosa che devi ricordare del Prestito, è che devi sentirti comoda e al sicuro — affermò la vecchia spianando con la mano l’erba vicino a lei. — Il letto è la cosa migliore.
— Ma che cos’è un Prestito?
— Stenditi per terra e tiemmi la mano. La vedi l’aquila lassù?
Esk fissò il cielo scuro.
C’erano… due minuscole figure in basso sull’erba mentre lei si lasciava portare dal vento…
Sentiva il vento fischiarle tra le penne. L’aquila non stava cacciando, si godeva semplicemente il calore del sole sulle ali, e la terra sottostante non era in quel momento per lei che una forma senza importanza. Ma l’aria, l’aria era una cosa tridimensionale, complessa e cangiante, un insieme di spirali e di curve che si prolungavano nella lontananza, uno zigzag di correnti che si avvolgevano intorno a caldi pilastri. Lei… sentì una pressione che la tratteneva dolcemente.
— L’altra cosa da ricordare — disse, molto vicina, la voce della Nonnina — è che non bisogna turbare il proprietario che ti ospita. Se gli lasci capire che sei lì, o lotterà contro di te o si farà prendere dal panico. E in entrambi i casi, tu non avresti la minima possibilità. Lui è stato un’aquila per tutta una vita, e tu no.
Esk rimase in silenzio.
— Non hai paura, vero? — chiese la vecchia. — Ti può succedere la prima volta, e…
— Non ho paura — rispose la bambina. — Come faccio per controllarla?
— Non puoi. Non ancora. Comunque, controllare una creatura selvatica non è cosa facile da imparare. Tu devi… riuscire a farla comportare in un certo modo… diciamo che devi suggerirglielo. Con un animale domestico, naturalmente, è tutto diverso. Ma è impossibile portare qualsiasi creatura a fare qualcosa che è totalmente contraria alla sua natura. Adesso prova a trovare la mente dell’aquila.