Skiller si voltò con cautela e guardò il barile dietro a lui. L’odore del locale era cambiato e lui riusciva a sentire l’oro puro che trasudava dal vecchio fusto.
Preso con attenzione un bicchierino dalla riserva sotto il banco, fece uscire dal rubinetto un piccolo getto del liquido d’oro scuro. Lo contemplò pensieroso alla luce della lampada, rigirò il bicchiere tra le dita, lo annusò più volte e ne ingollò il contenuto in un solo sorso.
Il suo viso rimase lo stesso, sebbene gli occhi gli si inumidissero e la gola gli tremasse un po’. Sotto lo sguardo attento della moglie e di Esk, la sua fronte s’imperlò di goccioline di sudore. Passati dieci secondi, era evidente che era sul punto di battere un record eroico. Forse dalle orecchie gli uscivano nuvolette di vapore, ma poteva trattarsi di una chiacchiera. Le sue dita tamburellavano uno strano ritmo sul bancone.
Alla fine deglutì, sembrò giungere a una decisione, si rivolse solennemente a Esk e farfugliò una filza di suoni inarticolati.
Con la fronte aggrottata, ripensò mentalmente la frase e fece un secondo tentativo. Senza miglior successo.
Si arrese.
— Bharrgsh nargh!
La moglie sbuffò e gli tolse il bicchiere di mano senza che lui protestasse. Lo annusò. Guardò i fusti, uno a uno. Il suo sguardo incontrò quello incerto di lui. Perduti in un paradiso privato per due, calcolarono senza parlare il prezzo di vendita di seicento galloni di brandy di pesca bianca di montagna distillato tre volte, e persero il conto.
La signora Skiller era più svelta di comprendonio del marito. Si chinò a sorrìdere a Esk, che era troppo stanca per ricambiarla con un’occhiataccia. Non era un sorriso particolarmente riuscito; perché la signora Skiller mancava di pratica.
— Come hai fatto a venire qui, ragazzina? — La sua voce suggeriva casette di zenzero e il tonfo dello sportello di un grande forno.
— Mi sono persa dalla Nonnina.
— E dov’è adesso la Nonnina, cara? — Lo sportello del forno si chiuse di nuovo con fracasso. Si annunciava una notte difficile per tutti coloro che vagavano in foreste metaforiche.
— Da qualche parte, suppongo.
— Ti piacerebbe andare a dormire in un grande letto di piume, tutto morbido e caldo?
La bambina la guardò riconoscente, anche se si rendeva vagamente conto che la donna aveva la faccia di un astuto furetto, e fece cenno di sì.
Avete ragione. Ci vorrà più di un tagliaboschi di passaggio per sistemare questa faccenda.
In quel momento la Nonnina si trovava a due strade di distanza. Si era anche persa, secondo il criterio di certa gente. Lei non la pensava così. Lei lo sapeva dove si trovava, era tutto il resto che lo ignorava.
Si è già accennato come sia molto più difficile individuare una mente umana di quella, diciamo, di una volpe. La mente umana, che considera il fatto come una specie di affronto, vuole sapere perché. Ecco perché.
La mente degli animali è semplice e perciò acuta. Gli animali non perdono mai tempo a dividere l’esperienza in tante piccole parti e a speculare su quelle che gli sono sfuggite. Per loro l’intero apparato dell’universo consiste nettamente in cose quali: a) accoppiarsi, b) mangiare, c) sfuggire, d) rocce. Ciò libera la mente da inutili pensieri e la rende perspicace, quando occorre. Un animale normale, infatti, non cerca mai di camminare e masticare gomma allo stesso tempo.
L’essere umano medio, d’altro lato, pensa ogni sorta di cose, ventiquattro ore su ventiquattro, a ogni sorta di livelli, con interruzioni risultanti da una quantità di calendari biologici e di orologi. Ci sono pensieri che si esprimono e pensieri privati, pensieri reali, pensieri riguardanti pensieri, e un’intera gamma di pensieri subconsci. Per un telepatico la mente umana è una confusione di rumori. Una stazione ferroviaria con tutti gli altoparlanti contemporaneamente in funzione. Una vera e propria lunghezza d’onda FM (e certe di quelle stazioni non sono rispettabili, stazioni pirate su mari proibiti che trasmettono a tarda notte le registrazioni di musica sentimentale).
Tentando di localizzare Esk soltanto con la magia della mente, la Nonnina cercava di trovare l’ago nel pagliaio.
Infatti non le riusciva. Le giunsero invece da migliaia di cervelli, che tutti pensavano simultaneamente, abbastanza segnali da convincerla che il mondo era davvero stupido come lei aveva sempre ritenuto che fosse.
Incontrò Hilta all’angolo della strada. L’amica aveva con sé la sua scopa in modo da condurre meglio una ricerca aerea (ma in grande segretezza; infatti gli uomini di Ohulan, consumatori convinti dell’Unguento di Lunga Durata, erano assolutamente contrari alle donne volanti). Hilta era agitata.
— Non la minima traccia di lei — la informò la Nonnina.
— Sei stata giù al fiume? Potrebbe esserci caduta.
— In questo caso, ne sarebbe ricaduta fuori. E a ogni modo, Esk sa nuotare. Io penso che si nasconda, accidenti a lei.
— Cosa facciamo?
La vecchia la fulminò con lo sguardo. — Hilta Trovacapra, mi vergogno di te, che ti comporti da vigliacca. Ti sembro preoccupata? L’altra la guardò.
— Lo sei. Un po’. Quasi non ti si vedono più le labbra.
— Sono semplicemente arrabbiata, ecco tutto.
— Gli zingari vengono sempre qui alla fiera, può darsi che l’abbiano presa.
La Nonnina era preparata a credere qualsiasi cosa della gente di città, ma in quel caso si trovava su terreno più sicuro.
— Allora sarebbero molto più stolidi di quanto li giudico — scattò. — Ascolta, lei ha la verga.
— A che le servirebbe? — Hilta era vicina alle lacrime.
— Mi pare che non hai capito niente di ciò che ti ho raccontato — disse severa la Nonnina. — Non ci resta che tornare a casa tua e attendere.
— Per quale ragione?
— Le grida o i rumori violenti o le palle di fuoco o che altro — rispose un po’ vagamente la Nonnina.
— È tremendo!
— Oh, mi aspetto che è quanto gli capiterà. Dammi retta, tu va avanti e metti il bricco sul fuoco.
Hilta le lanciò uno sguardo disorientato, poi salì sulla scopa e si alzo adagio con volo irregolare nelle ombre tra i camini. Se le scope fossero vetture, la sua sarebbe stata una Mini Morris con i vetri a doppio scorrimento.
Dopo averla osservata per un po’, la Nonnina la seguì camminando sulia via bagnata. Era ben decisa che non l’avrebbero mai indotta a salire su uno di quei così.
Esk era stesa tra le lenzuola leggermente umide del grande letto di piume nella stanza dell’attico dell’Indovinello. Era stanca, ma non riusciva a dormire. Prima di tutto, il letto era troppo freddo. Si chiese incerta se avrebbe avuto il coraggio di riscaldarlo, ma ci ripensò. Per quanta attenzione mettesse negli esperimenti, non pareva capace di padroneggiare gli incantesimi riguardanti il fuoco. O non funzionavano affatto o funzionavano fin troppo bene. I boschi intorno al cottage stavano diventando pericolosi in seguito ai buchi lasciati dalla scomparsa delle palle di fuoco. Almeno, sosteneva la Nonnina, se quel tipo di magia non funzionava, lei avrebbe avuto un bell’avvenire nella costruzione dei gabinetti o nello scavo dei pozzi.
Si girò, cercando di non badare al lieve odore di muffa del letto. Poi allungò un braccio nel buio finché la sua mano non trovò la verga, appoggiata alla spalliera. La signora Skiller aveva molto insistito per portarla giù, ma Esk ci si era aggrappata con tutte le sue forze. Era l’unica cosa al mondo che lei fosse assolutamente certa le appartenesse.
Toccare la lucida superficie con le sue strane incisioni le dava uno strano senso di conforto. La bambina si addormentò e sognò di bracciali, pacchetti strani e montagne. E stelle lontane alte sulle montagne, e un freddo deserto dove strane creature avanzavano barcollanti attraverso la sabbia e la fissavano con i loro occhi da insetti…