— Non c’è niente di sbagliato in questa scopa a cui non si potrebbe rimediare se tu perdessi qualche chilo — lo rimbeccò lei. — O preferiresti scendere e camminare?
— A parte il fatto che metà del tempo i miei piedi toccano comunque terra, non vorrei metterti in imbarazzo. Se mi avessero chiesto — continuò il mago — di elencare tutti i pericoli del volo, sai, non mi sarebbe mai venuto in mente d’includerci di avere le gambe massacrate dalle felci alte.
Senza voltarsi, lo sguardo cupo fisso davanti a sé, la Nonnina gli chiese: — Stai fumando? Qualcosa brucia.
— Era solo per calmarmi i nervi, signora, con tutto questo precipitarci a capofitto nell’aria.
— Be’, spegni immediatamente. E reggiti.
La scopa rollò all’improvviso in su e aumentò la velocità tipo jogging geriatrico.
— Signor Mago.
— Ohilà?
— Quando dicevo di reggerti…
— Sì?
— Non intendevo lì.
Una pausa.
— Oh! Sì. Capisco. Mi dispiace terribilmente.
— Va bene.
— La mia memoria non è più quella di un tempo… Ti assicuro… non intendevo mancarti di rispetto.
— D’accordo.
Volarono per un momento in silenzio.
— Tuttavia — riprese la Nonnina in tono cortese — penso che, tutto sommato, preferirei che spostassi le mani.
La pioggia batteva sulle lamiere di piombo del tetto dell’Università Invisibile e scorreva nelle grondaie dove i nidi delle cornacchie, abbandonati fin dall’estate, galleggiavano come barche mal costruite. L’acqua gorgogliava nei vecchi condotti incrostati. Si fece strada sotto le tegole e salutò i ragni annidati sotto i cornicioni. Rimbalzò dai timpani e formò laghi segreti in alto tra le guglie.
Interi sistemi ecologici vivevano sui tetti sterminati dell’Università: a paragone Gormenghast sembrava un capanno degli attrezzi su un terreno della ferrovia. Uccelli cantavano nelle minuscole giungle cresciute dai semi di mela e quelli delle erbacce; ranocchiette nuotavano nelle grondaie superiori e una colonia di formiche si affaccendava a inventare una civiltà interessante e complessa.
Una cosa che l’acqua non poteva fare era gorgogliare fuori dai doccioni ornamentali allineati intorno ai tetti. Questo perché i doccioni se ne andavano a rifugiarsi nelle soffitte al primo segnale di pioggia. Loro sostenevano che la bruttezza non era sinonimo di stupidità.
Piovevano ruscelli. Piovevano fiumi. Piovevano mari. Ma soprattutto pioveva attraverso il tetto della Grande Sala, dove il duello tra la Nonnina e Tagliangolo aveva lasciato un enorme buco. E a Treatle sembrava che in qualche modo piovesse su lui personalmente.
Stava in piedi su un tavolo a organizzare le squadre di studenti che staccavano dalle pareti i quadri e le antiche tappezzerie prima che si bagnassero. Su un tavolo perché il pavimento era già sommerso da diversi centimetri di acqua.
Non acqua piovana, purtroppo. Quella era acqua dotata di una vera personalità, la personalità inconfondibile che l’acqua acquista dopo un lungo viaggio attraverso una contrada melmosa. Aveva la consistenza dell’autentica acqua dell’Ankh… troppo dura da bere, troppo liquida da arare.
Il fiume aveva superato gli argini e un milione di rivoletti si spandevano all’intorno, allagando le cantine e giocando a rimpiattino sotto le pietre del lastrico. Di tanto in tanto si udiva il rombo distante di una magia dimenticata in un sotterraneo allagato, che scoppiava e liberava il proprio potere. Treatle era tutt’altro che entusiasta dei gorgogli e dei sibili che sfuggivano in superficie.
Pensò una volta di più quanto gli sarebbe piaciuto essere il tipo di mago che vive in una piccola grotta a collezionare erbe, a coltivare pensieri profondi e conoscere il linguaggio dei gufi. Ma probabilmente la grotta sarebbe stata umida e le erbe velenose. E, in fin dei conti, Treatle non sapeva esattamente quali pensieri fossero davvero profondi.
Scese dal tavolo goffamente e sguazzò nelle acque scure e vorticose. Be’ lui aveva fatto del suo meglio. Aveva cercato di convincere i maghi anziani a riparare il tetto con la magia. Ma dopo avere discusso senza costrutto degli incantesimi da usare, loro si erano trovati unanimi nel sostenere che in ogni caso quello era lavoro da artigiani.
"Eccoli lì, i maghi" pensava cupamente mentre passava sotto gli archi gocciolanti "sempre a scandagliare l’infinito e a non curarsi mai del definito. Specie in materia di lavori domestici. Non abbiamo mai avuto questi guai prima dell’arrivo di quella donna."
Con l’acqua che gli faceva ciac ciac nelle scarpe, prese a salire la scala illuminata in quel momento da un lampo particolarmente violento. Aveva la sgradevole certezza che, mentre nessuno avrebbe potuto biasimarlo per quel putiferio, tutti l’avrebbero fatto. Sollevò l’orlo della veste e lo strizzò sconsolato, poi tirò fuori la sua borsa del tabacco.
Era una bella borsa verde impermeabile. Con il risultato che tutta l’acqua che ci era entrata, non poteva uscirne. Una cosa indescrivibile.
Trovò il suo pacchetto di cartine. Si erano sciolte in un ammasso. Come la leggendaria banconota da una sterlina trovata nelle tasche posteriori dei pantaloni, dopo essere stati lavati, centrifugati, asciugati e stirati.
— Accidenti! — imprecò con tutti i sentimenti.
— Ehi! Treatle!
Treatle si guardò intorno. Era stato l’ultimo a lasciare la sala, dove ora perfino le panche cominciavano a galleggiare. I punti dove la magia filtrava su dalle cantine erano indicati da mulinelli e piccole pozze gorgoglianti, ma non si vedeva nessuno.
A meno che, naturalmente, una delle statue avesse parlato. Erano troppo pesanti da rimuovere e Treatle ricordava di avere detto agli studenti che una bella lavata probabilmente gli avrebbe fatto bene.
Guardando adesso i loro visi severi, lo rimpianse. Le statue di maghi defunti, e un tempo molto potenti, parevano a volte più realistiche di quanto le statue abbiano il diritto di essere. Forse avrebbe dovuto parlare a voce bassa.
— Sì? — si arrischiò a rispondere, acutamente conscio dei loro sguardi di pietra.
— Quassù, sciocco!
Lui alzò gli occhi. La scopa scendeva pesantemente nella pioggia con una serie di scatti e di giravolte. A circa un metro e mezzo dall’acqua, perse quel po’ che le restava di pretese aeree e cadde con un tonfo dentro un mulinello.
— Non startene lì in piedi, idiota!
Treatle sbirciò nervosamente nella semioscurità.
— Devo pure stare da qualche parte — protestò.
— Voglio dire, dacci una mano! — scattò Tagliangolo, che sorgeva dalle ondine come una Venere grassa e arrabbiata. — Prima la signora, naturalmente.
Si voltò verso la Nonnina, che stava pescando nell’acqua intorno.
— Ho perduto il mio cappello — annunciò.
L’Arcicancelliere se ne uscì in un sospiro. — Ha davvero importanza in un momento come questo?
— Una strega deve avere il suo cappello, altrimenti chi la riconosce? — ribatté lei. Allungò la mano per afferrare un oggetto scuro e fradicio che scivolava via, chiocciò trionfante, lo vuotò dall’acqua e se lo calcò sulla testa. Il cappello avendo perduto la rigidezza, le ricadde molle su un occhio dandole un’aria sbarazzina.
— Bene — disse la Nonnina. Il suo tono di voce stava a indicare che l’universo intero avrebbe fatto meglio a stare attento.
In quel preciso momento un lampo mandò un altro vivido bagliore. Il che dimostra che anche gli dei meteorologici hanno un senso teatrale ben sviluppato.
— Ti sta piuttosto bene — commentò Tagliangolo.
— Scusami — disse Treatle — ma non è lei la d…
— Non ti preoccupare — lo rassicurò Tagliangolo. Prese la Nonnina per mano e l’aiutò a salire i gradini. Agitò la verga.