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— Ottimo, ottimo — disse — se non ti è di disturbo. La manderò a prendere in mattinata, che ne dici?

— Va bene. Ti inviterei a entrare, ma non c’è nemmeno il fuoco acceso…

— No, no, va tutto bene — disse in fretta il fabbro. — Ho la cena che mi aspetta. Sta zitto — aggiunse, rivolto a Gulta, che aveva aperto la bocca per parlare e saggiamente ci aveva ripensato.

Quando se ne furono andati, tra le proteste dei due ragazzini che echeggiavano tra gli alberi, la Nonnina aprì la porta, spinse dentro Esk, e tirò il chiavistello dietro di loro. Prese due candele dalla provvista che teneva sulla dispensa e le accese. Poi tirò fuori da una cassapanca delle coperte di lana, vecchie ma ancora utilizzabili, ancora odorose di erbe anti tarme, ci avvolse la bambina e la fece sedere sulla poltrona a dondolo.

Si mise in ginocchio, con un accompagnamento di ossa scricchiolanti e di grugniti, e si preparò ad accendere il fuoco: una faccenda complicata, consistente in funghi seccati di quelli che crescono sugli alberi, usati come esca, trucioli di legno, ramoscelli spezzati, e molto soffiare e sudare.

Esk le disse: — Non devi fare così, Nonnina.

La vecchia si raddrizzò e guardò il parafuoco. Era un oggetto niente male, che il Fabbro aveva fatto per lei parecchi anni prima, con un motivo di gufi e pipistrelli. Di solito, però, lei non s’interessava al disegno.

— Ah, sì? — disse in tono asciutto. — Tu conosci un modo migliore, vero?

— Lo potresti accendere con la magia.

La Nonnina concentrò tutta la sua attenzione nel disporre altri ramoscelli sulle fiamme stente.

— E come farei, prego? — osservò, rivolta apparentemente al parafuoco.

— Eh… — La bambina esitava. — Non… non posso ricordarmelo. Ma tu devi saperlo comunque, non è così? Lo sanno tutti che sei capace di fare la magia.

— C’è magia e magia. La cosa importante, ragazza mia, è sapere a che cosa serve la magia e a che cosa non serve. Dammi retta, non ha mai avuto lo scopo di accendere il fuoco, di questo puoi essere certa. Se il Creatore avesse voluto che noi usassimo la magia per accendere il fuoco, allora non ci avrebbe dato, ehm… i fiammiferi.

— Ma tu saresti capace di accendere il fuoco con la magia? — insisté Esk, mentre la vecchia appendeva al suo gancio una vecchia cuccuma annerita. — Voglio dire, se tu lo volessi. Se fosse possibile.

— Forse. — Ma lei non avrebbe potuto: il fuoco non era dotato di una mente, non era una creatura viva. E queste erano due delle tre ragioni.

— Potresti accenderlo molto meglio.

— Se vale la pena di fare una cosa, vale la pena di farla male — sentenziò la Nonnina, rifugiandosi negli aforismi, ultima risorsa di un adulto messo alle strette.

— Sì, ma…

— Con me niente ma.

Si mise a frugare in una scatola di legno scuro sulla dispensa. La Nonnina si vantava di non avere rivali nella conoscenza delle proprietà delle erbe delle Ramtop. Nessuno meglio di lei conosceva i molti usi della Pianta Spigata, Desiderio di Fanciulla e Amore fluente. Ma c’erano delle volte in cui doveva ricorrere alla sua piccola provvista di medicine gelosamente commerciate e attentamente custodite provenienti dalla Regione di Forn (situata per quanto ne sapeva lei, in una qualsiasi zona che distasse più di un giorno di viaggio), per ottenere l’effetto desiderato.

Sminuzzò delle foglie rosse secche in un boccale, ci versò sopra del miele e acqua bollente dalla cuccuma, e lo mise in mano alla bambina. Poi piazzò sotto la grata una grossa pietra rotonda (che, più tardi, avvolta in un panno di lana, sarebbe servita da scaldaletto), ingiunse a Esk di non muoversi dalla poltrona e andò nel retrocucina.

Esk tamburellava con i calcagni sulle zampe della poltrona e intanto sorseggiava la bevanda, che aveva uno strano gusto pepato. Chissà cos’era. Naturalmente lei aveva già bevuto gli infusi della Nonnina i quali contenevano miele in quantità maggiore o minore a seconda che, a giudizio della vecchia, uno faceva troppe storie. E sapeva pure che lei era famosa nelle montagne a causa di certe sue pozioni speciali per malattie alle quali sua madre (e a volte anche delle donne giovani) alludevano a voce bassa e sopracciglia inarcate.

Al suo ritorno, la Nonnina la trovò addormentata. Né la bambina si ricordava che l’avesse messa a letto e avesse sprangato le finestre.

Tornata dabbasso, Nonnina Weatherwax trascinò più vicina al fuoco la poltrona a dondolo.

Nascosta nella mente della bambina, si diceva che lì c’era qualcosa. Non le garbava pensare che cosa fosse, ma ricordava quanto era successo ai lupi. E tutto quel parlare di accendere il fuoco con la magia. Lo facevano i maghi, era una delle prime cose che apprendevano.

La strega sospirò. C’era solo un modo per accertarsene, e lei stava diventando troppo vecchia per una cosa del genere.

Prese la candela e, attraversato il retrocucina, entrò nel locale annesso dove teneva le capre. Queste la guardarono senza paura, ciascuna accovacciata nel suo recinto simile a una palla pelosa, le tre bocche che masticavano ritmicamente la razione giornaliera di fieno. L’aria era calda e leggermente flatulenta.

Sulle travi in alto era appollaiato un gufetto, una delle varie creature per le quali vivere con la Nonnina compensava un eventuale disturbo. Le bastò una parola perché l’animale venisse a posarsi sulla sua mano e lei gli accarezzò la testa pensierosa mentre cercava con lo sguardo un posto comodo dove sdraiarsi. Avrebbe dovuto contentarsi di un mucchio di fieno.

Soffiò sulla candela e si stese, con il gufo posato sul suo dito.

L’unico rumore in tutto l’edificio era quello delle capre che andavano avanti, beate, nella notte a masticare, ruttare, ingoiare il loro cibo.

Il corpo della Nonnina era immobile. Il gufo se la sentì penetrare nella mente e le fece posto di buona grazia. La vecchia sapeva che dopo se ne sarebbe pentita. Cambiare d’identità in un solo giorno l’avrebbe lasciata svuotata la mattina seguente e con una voglia terribile di mangiarsi i sorci. Naturalmente, quando era più giovane, non ci badava: correva con i cervi, cacciava con le volpi, apprendeva le strane, sotterranee abitudini delle talpe. Di rado trascorreva una notte nel proprio corpo. Ma adesso la cosa le riusciva più difficile, specie al momento di tornare indietro. Forse sarebbe venuto il momento quando tornare le sarebbe stato impossibile; forse, una volta a casa, il suo corpo sarebbe stato soltanto carne morta. E forse, dopo tutto, non sarebbe stata nemmeno una cattiva soluzione.

I maghi, questo, non lo avrebbero mai saputo. Se gli capitava di entrare nella mente di un’altra creatura, lo facevano come un ladro; non per malvagità, ma semplicemente perché non contemplavano l’idea di farlo in un altro modo, scervellati buoni a nulla quali erano. E che vantaggio ci sarebbe stato ad assumere il corpo di un gufo? Volare era impossibile, ci sarebbe voluta una vita per impararlo. Il modo migliore era introdursi nella sua niente e guidarla con garbo, così come fa la brezza leggera con una foglia.

Il gufo si mosse, volò sul piccolo davanzale e scivolò silenzioso nella notte.

Le nuvole si erano diradate e uno spicchio di luna faceva risplendere le montagne. Guardando attraverso gli occhi del gufo, la Nonnina passava veloce attraverso le fila degli alberi. Una volta imparato, era quello l’unico modo di viaggiare! Lei amava più di tutti prendere a prestito gli uccelli e usarli per esplorare le alte valli nascoste dove nessuno andava, i laghi segreti tra i neri dirupi, i minuscoli campi recintati negli scampoli di terreno pianeggiante, incastonati sulle superfici rocciose, proprietà di esseri occulti e misteriosi. Una volta aveva volato con le oche che a primavera e in autunno attraversavano le montagne, e si era presa lo spavento più grande della sua vita quando aveva quasi oltrepassato il raggio consentito per ritornare.