«Non posso dirlo, mi dispiace», rispose Tenar, ma era una risposta un po’ troppo ambigua, e per di più era la seconda volta che la dava: anche gli uomini l’avevano notato. Raddrizzò le spalle e chiarì: «Intendo dire che non posso parlare. Penso che se l’Arcimago vorrà venire, verrà, e che se invece non vorrà farsi trovare, non lo troverete. Non penso che andreste a cercarlo contro la sua volontà».
Il più vecchio di loro, e il più alto, disse: «La nostra volontà è quella del re».
E quello che aveva parlato per primo aggiunse, in tono conciliante: «Noi siamo solo messaggeri. Quel che c’è tra il re e l’Arcimago riguarda esclusivamente loro due. Noi vogliamo solo portare il messaggio. E la risposta».
«Se potrò, gli farò pervenire il vostro messaggio.»
«E la risposta?» chiese il più vecchio del gruppo.
Tenar non disse niente, e allora l’uomo che aveva parlato per primo aggiunse: «Rimarremo qui alcuni giorni, al castello del Signore di Re Albi, il quale, saputo dell’arrivo della nostra nave, ci ha offerto la sua ospitalità».
Chissà perché, Tenar ebbe l’impressione che fosse scattata una trappola o si fosse stretto un cappio. La vulnerabilità di Ged, la debolezza dell’Arcimago l’avevano contagiata. Non avendo altre armi, si difese con la sua maschera, il suo aspetto di semplice massaia di mezz’età. Ma era davvero una maschera? Era anche la verità, e quel genere di cose era ancor più sottile dei travestimenti e delle metamorfosi dei maghi. Piegò la testa da un lato ed esclamò: «Sarà molto più adatto alle vostre signorie. Come vedete, viviamo molto semplicemente, qui, come il vecchio mago».
«E bevete vino delle Andrades», disse quello che aveva riconosciuto l’annata: un bell’uomo, dagli occhi intelligenti e dal sorriso simpatico. Tenar, in ossequio alla sua parte, abbassò gli occhi. Ma quando si accomiatarono e uscirono, capì che, qualunque cosa sembrasse o facesse, se ancora non sapevano che lei era Tenar dell’Anello, presto lo avrebbero saputo; così avrebbero avuto la conferma che conosceva l’Arcimago e che poteva guidarli a lui, se davvero intendevano cercarlo.
Quando se ne furono andati, Tenar trasse un profondo respiro di sollievo, e così fece Erica, che finalmente chiuse la bocca, dopo averla tenuta aperta per tutto il tempo della permanenza di quegli uomini.
«Non lo farò mai», disse, in tono di completa soddisfazione, e corse a vedere dove fossero finite le capre.
Therru uscì dall’angolo buio dietro la porta, dove si era barricata contro gli estranei proteggendosi con il bastone di Ogion, il bastone di ontano di Tenar e il suo bastone di nocciolo. Camminava a piccoli passi, di lato, come faceva un tempo, prima che si trasferissero in casa di Ogion: senza alzare la faccia, la testa piegata contro la spalla per non mostrare la cicatrice.
Tenar si inginocchiò per prenderla tra le braccia. «Therru», la rassicurò, «non intendono farti del male.»
Ma la bambina non voleva guardarla in faccia. Tra le braccia di Tenar, era rigida come un pezzo di legno.
«Se lo preferisci, non li farò mai più entrare in casa.»
Dopo qualche minuto, la bambina si scosse leggermente e chiese con voce spessa, roca: «Che cosa vogliono fare a Sparviero?»
«Niente», rispose Tenar. «Non certo del male! Sono venuti per… per onorarlo.»
Ma cominciava a capire che cosa significassero per Ged i tentativi di onorarlo: la negazione della sua perdita, la negazione del rimpianto di ciò che aveva perduto. Quegli uomini volevano costringerlo a recitare una parte che non era più la sua.
Quando Tenar la lasciò, Therru aprì l’armadio e prese la scopa di Ogion. Poi, scrupolosamente, pulì il pavimento dove si erano fermati gli uomini di Havnor e spazzò via le loro impronte, buttando fuori della stanza — fuori della soglia — la polvere delle loro scarpe.
Nel guardare la bambina al lavoro, Tenar prese la decisione.
Si avvicinò allo scaffale dove Ogion teneva i suoi tre grandi libri e cominciò a frugare. Trovò varie penne d’oca e una boccetta d’inchiostro, mezzo asciutta, ma neppure un pezzo di carta o di pergamena. Fece una smorfia, perché le dispiaceva danneggiare una cosa preziosa come un libro, ma piegò e staccò una sottile striscia di carta dall’ultima pagina, bianca, del libro delle Rune. Si sedette al tavolo, intinse la penna e cominciò a scrivere. Né l’inchiostro né le parole erano facili a scorrere. Non aveva più avuto occasione di scrivere da quando si era seduta l’ultima volta a quel tavolo, un quarto di secolo prima, con Ogion che la sorvegliava da dietro le spalle, e le insegnava le Rune hardiche e le Grandi Rune di Potere. Scrisse: va’ alla fattoria querce in valle di mezzo, da rivochiaro. Di’ Goha mandato te per curare orto e pecore.
Per rileggere il messaggio, le occorse quasi lo stesso tempo che aveva impiegato per scriverlo. Nel frattempo, Therru aveva finito di spazzare e la guardava con grande attenzione.
Aggiunse una sola parola: stanotte.
«Dov’è Erica?» chiese poi alla bambina, piegando due volte su se stessa la strisciolina di carta. «Deve portare questo biglietto a casa di Zia Muschio.»
Avrebbe voluto andarci di persona, per vedere Ged, ma non voleva correre rischi: forse quegli uomini la sorvegliavano nella speranza che li conducesse fino a lui.
«Vado io», sussurrò Therru.
Tenar la guardò, aggrottando le sopracciglia.
«Dovrai andare da sola, Therru. Ed è in fondo al villaggio.»
La bambina annuì.
«Dallo solo a lui!» raccomandò Tenar.
La bambina annuì di nuovo.
Tenar infilò il biglietto nella tasca della bambina, la abbracciò, la baciò e poi la lasciò andare. Therru si allontanò, senza zoppicare e senza nascondere la faccia, ma a testa alta, correndo senza impedimenti, volando, pensò Tenar, e la guardò svanire nella luce della sera, oltre la cornice buia della porta, volando come un uccello, come un drago, come una bambina libera.
FALCHI
Presto, Therru fu di ritorno con la risposta di Sparviero: «Ha detto che partirà questa notte».
Tenar ascoltò con soddisfazione, lieta del fatto che avesse accettato il suo piano e che si allontanasse dai messaggeri e dai messaggi da lui temuti. Solo più tardi, dopo avere servito a Erica e a Therru il loro piccolo banchetto a base di rane, dopo avere messo a dormire Therru e averle cantato la ninna-nanna, quando sedeva da sola al tavolo, senza lampada e senza luce del fuoco, Tenar sentì una stretta al cuore. Ged se n’era andato. Era debole, spaventato e insicuro: aveva bisogno di amici e lei lo aveva allontanato da coloro che avrebbero voluto aiutarlo. Se n’era andato, ma lei doveva rimanere, per allontanare i segugi dalla sua pista, o quanto meno per scoprire se intendevano rimanere a Gont o ritornare a Havnor.
Il panico di Ged e il fatto che lei lo avesse assecondato cominciarono a sembrarle atteggiamenti così irragionevoli da farle pensare che la fuga di Ged fosse un’assurdità. Avrebbe riflettuto sulla cosa e si sarebbe semplicemente nascosto in casa di Muschio, che era l’ultimo posto di Earthsea dove un re sarebbe andato a cercare il suo Arcimago. Era meglio rimanere laggiù finché gli uomini del re non se ne fossero andati. Poi sarebbe potuto ritornare alla casa di Ogion, che era il posto più adatto a lui. E le cose sarebbero andate come prima, con lei che si prendeva cura di Ged finché non avesse ripreso le forze, e con lui che le offriva la sua preziosa compagnia.
Un’ombra si disegnò sulla soglia, nascondendo le stelle. «Sst! Dormite tutti?» Entrò Zia Muschio. «Be’, se n’è andato», disse, con l’aria di chi prende parte a una cospirazione. «Ha imboccato la vecchia strada della foresta. Dice che da lì, domattina, arriverà alla strada per la Valle di Mezzo, dietro Fontana delle Querce.»
«Bene», rispose Tenar.
Più ardita del solito, Muschio si sedette senza essere invitata. «Gli ho dato una pagnotta e una forma di cacio per mangiare qualcosa durante il tragitto.»
«Grazie, Muschio. Sei stata gentile.»