«A parlare?» fece Tenar, sorpresa.
«Tu sei una donna rispettabile, cara, e la reputazione è la ricchezza della donna.»
«La sua ricchezza…» disse Tenar, in tono vacuo. «Il suo tesoro. Il suo valore.» Si alzò: era stanca di stare seduta, e si stirò varie volte la schiena e le braccia. «Come i draghi che cercano una caverna e poi la trasformano in una fortezza per il loro tesoro, per le loro ricchezze, e poi si stendono sopra di esse, a dormire. Prendere, prendere e non dare mai!»
«Saprai anche tu il valore di una buona reputazione», disse Muschio, asciutta, «quando l’avrai perduta. Non è tutto, certo. Ma è difficile trovare qualcosa che la sostituisca, quando non ce l’hai più.»
«Tu rinunceresti a essere una strega per diventare una donna rispettabile, Muschio?»
«Non lo so», rispose lei, pensosa, dopo qualche istante. «Non so se potrei, però. So fare l’una, ma non so se saprei fare l’altra.»
Tenar la prese per le mani. Sorpresa, Muschio si alzò e si tirò leggermente indietro, ma Tenar la baciò sulla guancia.
La strega alzò una mano e timidamente le sfiorò i capelli: una carezza come quelle che le faceva Ogion. Poi si tirò indietro e mormorò di dover tornare a casa. Sulla soglia, però, chiese: «O forse preferivi che rimanessi, con tutti quegli stranieri che ci sono in giro?»
«Va’ pure», disse Tenar. «Sono abituata agli stranieri.»
Quella notte, addormentandosi, entrò di nuovo nelle grandi distese di vento e di luce, ma la luce era fumosa, rossa, arancione e ambra, come se l’aria stessa si fosse infuocata. In quell’elemento, lei aveva l’impressione di essere e di non essere: di volare nel vento e di essere il vento, il vento che soffiava, la forza che si liberava; e nessuna voce la chiamò.
La mattina seguente, Tenar sedeva sulla soglia e si spazzolava i capelli. Non li aveva chiari come tanti altri abitanti di Karg; aveva la pelle bianca, ma i capelli scuri. Ed erano ancora scuri, senza un solo filo grigio. Li aveva lavati con l’acqua che aveva messo a bollire per lavare i panni, perché quel giorno aveva deciso di fare il bucato, visto che Ged era andato via e che la sua rispettabilità non correva pericoli. Si era asciugata i capelli al sole, continuando a spazzolarli, e a causa dell’aria secca e calda del mattino, tra i capelli e la spazzola crepitavano piccole scintille.
Therru si fermò dietro di lei, a guardarla. Tenar si voltò e la vide così attenta che quasi tremava.
«Che cosa c’è, passerotto?»
«Il fuoco che vola via!» disse la bambina, in tono impaurito, o forse esaltata. «Per tutto il cielo!»
«Sono solo le scintille dei miei capelli», rispose Tenar, leggermente sorpresa. Therru sorrideva, e lei non ricordava di avere mai visto sorridere la bambina. Therru allora sollevò tutt’e due le mani, quella sana e quella bruciata, come per seguire il movimento di qualcosa che volava sui capelli sciolti di Tenar. «Il fuoco, esce da tutte le parti!» ripeté, ridendo.
In quel momento, Tenar si chiese per la prima volta come Therru la vedesse — come vedesse il mondo — e comprese di non saperlo: non sapeva che cosa si potesse vedere con un occhio bruciato dal fuoco. Le tornarono alla mente le parole di Ogion: «Impareranno a temerla», ma non sentì alcun timore della bambina. Invece, si diede un’altra spazzolata ai capelli, vigorosa, in modo che volassero le scintille, e ancora una volta sentì la piccola risatina roca e deliziata.
Tenar lavò le lenzuola, gli strofinacci dei piatti, le sue camicie e la gonna di ricambio, i vestitini di Therru, e posò tutto sull’erba asciutta (dopo essersi assicurata che le capre fossero nel recinto), fermandolo con alcune pietre perché il vento era forte, con una violenza da fine estate.
Therru era cresciuta. Era ancora piccola e magra per la sua età (che doveva essere sugli otto anni) ma negli ultimi due mesi, ora che finalmente le ustioni erano guarite e non le facevano più male, aveva cominciato a mangiare con più appetito e a correre di più. Le erano diventati stretti anche i vestiti, abitini usati che le erano stati passati dall’ultima figlia di Lodola, che aveva cinque anni.
Tenar pensò che poteva recarsi al villaggio per fare visita al tessitore, Ventaglio, e chiedergli un paio di scampoli in cambio degli avanzi che gli aveva fornito per i maiali. Aveva voglia di cucire un vestito per Therru e desiderava rivedere il vecchio Ventaglio. La morte di Ogion e la malattia di Ged l’avevano tenuta lontana dal villaggio e dai conoscenti che aveva laggiù. Come sempre, l’avevano allontanata dalla gente che conosceva e dalle cose che sapeva fare, dal mondo in cui aveva scelto di vivere: un mondo non di re e regine, di grandi potenze e di imperi, di magie, viaggi e avventure (pensò, mentre si accertava che Therru fosse con Erica e si metteva in cammino verso il villaggio), ma di gente comune che faceva cose comuni: sposarsi, allevare figli, coltivare i campi, cucire e fare il bucato. Quel pensiero la irritò e la sua mente allora si rivolse a Ged, che ormai doveva essere a metà strada dalla Valle di Mezzo. Se lo immaginò sul sentiero, vicino alla piccola valle dove lei e Therru erano scese per dormire: un uomo minuto, dai capelli grigi, che camminava solo e in silenzio, con in tasca mezza pagnotta del pane della strega e nel cuore un carico di tristezza.
«È ora che tu lo scopra, forse», disse tra sé, rivolgendosi però a lui. «È tempo che tu scopra di non avere imparato tutto, quando eri a Roke!» E mentre lo apostrofava così, scorse un’altra immagine: vide accanto a Ged uno degli uomini che avevano aspettato lei e Therru su quella stessa strada. Involontariamente, gridò: «Ged, attento!» perché aveva paura per lui, che non portava neppure un bastone. Non vide l’uomo massiccio con i baffi, ma un altro del gruppo, un uomo più giovane con un berretto di cuoio: quello che aveva fissato con ira Therru.
Quando alzò lo sguardo notò, proprio accanto all’abitazione di Ventaglio, la casetta in cui lei era stata ospitata durante la sua permanenza laggiù. Davanti alla casa passava in quel momento un uomo. Era l’uomo che Tenar ricordava, quello con il berretto di cuoio. Camminava per la strada e non l’aveva scorta. Lei lo vide avviarsi lungo le strade del villaggio senza fermarsi. Si dirigeva verso le colline, oppure verso il castello. Senza chiedersi perché, Tenar lo seguì a distanza finché non comprese quale fosse la sua meta. L’uomo salì in direzione del castello del Signore di Re Albi, e non imboccò la strada presa da Ged.
Allora Tenar tornò indietro e si recò dal vecchio Ventaglio.
Anche se, come tanti tessitori, era quasi un recluso, Ventaglio era sempre stato gentile, a modo suo, timidamente, con la ragazza di Karg, e aveva vigilato su di lei. Quante persone, si disse, avevano protetto la sua rispettabilità! Ormai quasi cieco, Ventaglio aveva un’apprendista che faceva gran parte del lavoro. Fu lieto di ricevere una visita. Sedeva come in pompa magna su una vecchia poltrona scolpita, sotto l’oggetto che gli aveva dato il nome: un grande ventaglio dipinto — un tesoro di famiglia -, dono, si diceva, di un generoso capitano pirata a suo nonno, per ringraziarlo di avergli fabbricato in fretta nuove vele in un momento di necessità. Era esposto aperto sulla parete. Gli uomini e le donne delicatamente dipinti, in sontuose vesti color rosa e giada e celeste, le torri e i ponti e le bandiere del Grande Porto di Havnor erano familiari a Tenar, che aveva già visto altre volte il ventaglio. Spesso, i visitatori che giungevano a Re Albi venivano portati a vederlo. Era l’oggetto più bello dell’intero villaggio: su questo, tutti erano d’accordo.
Tenar si soffermò ad ammirarlo, sapendo che la cosa sarebbe piaciuta al vecchio, ma anche perché era davvero bello, e il vecchio tessitore disse: «Non hai visto molte cose come questa, vero, in tutti i tuoi viaggi!»