«L’orgoglio?» ripeté Lebannen, stupito.
«Certo. L’orgoglio. Chi più di lui ha motivo di inorgoglirsi?»
«Ho sempre pensato a lui come… Era così paziente», disse Lebannen, e poi sorrise per quella descrizione inadeguata.
«Adesso non ha più pazienza», riprese Tenar, «ed è irragionevolmente severo con se stesso. Non possiamo fare niente per lui, penso, tranne che lasciarlo andare per la sua strada in modo che trovi se stesso alla fine della corda cui è legato, come dicono a Gont…» E, d’un tratto, cominciò anche lei a non avere più corda: era talmente stanca che si sentiva girare la testa. «Adesso, temo che dovrò andare a riposare», disse.
Il re si alzò immediatamente. «Lady Tenar», disse, «voi mi avete raccontato di essere fuggita da un nemico per trovarne un altro; ma io sono venuto a cercare un amico e ne ho trovato un altro.» Tenar sorrise, di fronte a tanto garbo e a tanta cortesia. Che bravo ragazzo, questo re, pensò.
La nave era tutta in fermento quando Tenar si svegliò: gemiti e cigolii del fasciame, tonfo di piedi nudi che correvano sulla tolda sopra la sua cabina, colpi di corde che battevano in terra, grida dei marinai. Non fu facile svegliare Therru che sembrava ancora stanca e forse febbricitante, anche se era sempre così calda che Tenar non riusciva mai a capire se avesse veramente la febbre. Provando un certo rimorso sia per aver costretto una bambina di salute cagionevole a fare quindici miglia a piedi sia per tutto quel che era successo il giorno prima, Tenar cercò di rallegrarla raccontandole che erano su una nave sulla quale c’era un vero re e che la loro cabina era quella del re, che la nave le portava a casa, alla fattoria, e che laggiù c’era Zia Lodola che le aspettava, e che forse c’era anche Sparviero. Ma neppure questo servì a destare l’interesse di Therru, che rimase assente, inerte, muta.
Sul suo braccio minuto, Tenar vide un segno: quattro dita rosse come un marchio a fuoco o una stretta violenta. Ma Faina non l’aveva stretta, l’aveva solo sfiorata. Tenar aveva promesso alla bambina che quell’uomo non l’avrebbe più toccata. La promessa non era stata mantenuta. La sua parola non significava nulla. Ma quale parola poteva ancora avere un significato contro la violenza cieca?
Si chinò sul braccio di Therru e baciò i segni.
«Vorrei poterti finire il vestito rosso», le disse. «Probabilmente il re avrebbe piacere di vederlo. Però, non penso che la gente indossi gli abiti più belli quando è su una nave. Neppure i re.»
Therru non si mosse sulla cuccetta rimanendo seduta con la testa china, e in silenzio. Tenar le accarezzò i capelli. Cominciavano a crescere più folti e robusti, finalmente, come una cortina nera e lucida sulle parti bruciate del cuoio capelluto. «Hai fame, passerotto? Non hai mangiato niente ieri sera. Forse il re ci manderà qualcosa per colazione. Ieri mi ha fatto assaggiare i suoi dolci e la sua uva.»
Nessuna risposta.
Quando Tenar le disse che era tempo di uscire dalla stanza, la bambina obbedì. Giunta sul ponte, però, continuò a tenere la testa piegata sulla spalla. Non alzò lo sguardo sulle bianche vele piene del vento del mattino, né lo abbassò sull’acqua scintillante, né si girò a guardare il Monte di Gont che s’innalzava nella sua imponente maestà, coperto di foreste, levando verso il cielo la sua cima. Non alzò gli occhi, quando Lebannen le parlò.
«Therru», le disse Tenar, piano, inginocchiandosi accanto a lei, «quando un re ti parla, devi rispondergli.»
Therru non parlò.
L’espressione con cui Lebannen la guardava era impenetrabile. Una maschera, forse; una maschera d’educazione che copriva il disgusto e l’offesa. Ma i suoi occhi neri rimanevano immobili. Toccò molto delicatamente il braccio della bambina, e disse: «Deve averti fatto una strana impressione, addormentarti nel porto e svegliarti in mezzo al mare».
Therru mangiò solo un po’ di frutta. Quando Tenar le chiese se voleva ritornare in cabina, la bambina annuì. Con riluttanza, Tenar la lasciò in cuccetta, tutta raggomitolata, e fece ritorno sul ponte.
La nave stava passando tra i due promontori: alte pareti scure che parevano sporgersi al di sopra delle vele. Arcieri di guardia in piccoli forti, che assomigliavano a nidi di rondine arroccati sulle scogliere, guardavano la gente sul ponte, e i marinai lanciavano grida allegre verso di loro: «Largo al re!» urlavano, e la risposta non era molto più forte dei richiami che le rondini si lanciavano da quelle pareti di roccia: «Il re!»
Lebannen era fermo sull’alto castello di prora, insieme con il comandante della nave e con un uomo alto, anziano, dagli occhi simili a due fessure, che indossava la veste grigia dei maghi dell’Isola di Roke. Anche Ged indossava una veste come quella, elegante e immacolata, il giorno che aveva portato con lei l’Anello di Erreth-Akbe alla Torre della Spada. Una veste come quella, ma vecchia, sudicia e consumata dal viaggio, era l’unica coperta di cui Ged disponesse sulle gelide pietre delle Tombe di Atuan e sul suolo polveroso delle montagne del deserto quando le avevano attraversate insieme. A questo pensava Tenar, mentre la schiuma delle onde si sollevava contro la prua e le alte pareti di roccia sparivano in lontananza.
Quando la nave, dopo avere superato gli ultimi scogli, si trovò in mare aperto, e cominciò a virare verso est, i tre uomini raggiunsero Tenar. Lebannen disse: «Signora, vi presento il Maestro dei Venti dell’Isola di Roke».
Il mago si inchinò, e la osservò con ammirazione e con curiosità; aveva gli occhi molto acuti e a Tenar diede l’impressione di essere un uomo che sapeva sempre da che parte soffiava il vento.
«Non c’è più bisogno di sperare che il bel tempo continui perché, con voi presente, questa è una certezza», disse Tenar.
«Oh, in una giornata come questa, io sono solo un peso morto», si schermì il mago. «E poi, con un marinaio come mastro Serrathen al timone, chi ha bisogno della magia del tempo?»
Quanto siamo cortesi, pensò lei, tutti signori, signore, mastri, inchini e complimenti. Guardò il giovane re e vide che la osservava, sorridente ma riservato.
Si sentì come si era sentita a Havnor da ragazza: una donna barbara, rozza, in mezzo a tanta raffinatezza. Ma poiché non era più una ragazza, non si lasciò intimidire; solo, si meravigliò per come gli uomini riuscissero a trasformare il mondo in una sorta di ballo in maschera, e della facilità con cui una donna riusciva a imparare a ballarlo.
Sarebbe stata sufficiente quella giornata, le dissero, per arrivare a Valmouth. Sarebbero arrivati laggiù nel tardo pomeriggio, se il vento si fosse mantenuto favorevole.
Ancora stanca per le peripezie e la tensione del giorno prima, sedette con piacere sul sedile che il marinaio calvo le aveva preparato con un po’ di paglia e un pezzo di tela da vela, e rimase a guardare le onde e i gabbiani, e vide il profilo del Monte di Gont, azzurro e bellissimo nella luce del mezzogiorno, cambiare progressivamente forma a mano a mano che la nave sfiorava le sue alte scogliere, a un miglio o due dalla costa. Portò sopra coperta Therru perché prendesse un po’ di sole, e la bambina si sedette accanto a lei e continuò a guardare il mare e a sonnecchiare.
Un marinaio, un uomo sdentato e dalla pelle molto scura, si avvicinò a loro. Camminava a piedi nudi: Tenar vide che aveva la pianta dei piedi dura come zoccoli, e le dita orrendamente storte; si avvicinò a loro e posò qualcosa sulla tela da vela, accanto a Therru. «Per la bambina», disse con voce roca. Poi si allontanò subito, anche se rimase a portata di voce. Di tanto in tanto, mentre lavorava sul ponte, guardava speranzoso verso la bambina, per vedere se il dono le era piaciuto, e poi fingeva di non avere guardato. Therru non volle toccare l’involucro di stoffa, e Tenar dovette aprirglielo. Conteneva una piccola scultura, bellissima, che raffigurava un delfino, di osso o forse di avorio, lunga come il suo dito pollice.