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«E allora è arrivato lui, il re!… come una lama di spada, e Faina era confuso e impaurito… e io credevo che fosse Scintilla! L’ho davvero creduto, per un momento, tanto ero fuori di me.»

«Be’», disse Melina, «non c’è niente di strano, perché Lucciola ti ha scambiata per la regina madre, quando eravamo sul molo, a guardarti approdare in tutta la tua gloria. E lei lo ha baciato, Zia Lodola. Ha baciato il re, come se niente fosse. Pensavo che poi baciasse anche il mago, ma non l’ha fatto.»

«Certo che non l’ha baciato, che idea. Di che mago si trattava?» chiese Lodola, con la testa infilata nella credenza. «Dove tieni la farina, Goha?»

«Dove hai messo la mano ora. Un mago di Roke, venuto a cercare un nuovo Arcimago.»

«Qui da noi?»

«Perché no?» chiese Melina. «L’ultimo che hanno avuto era di Gont, no? Ma non hanno perso molto tempo a cercarlo. Sono tornati subito a Havnor, una volta sbarazzatisi di mia madre.»

«Che maniera di esprimerti.»

«Il mago ha detto che cercava una donna», spiegò Tenar alle sue due compagne. «Una donna di Gont. Ma ho avuto l’impressione che la cosa gli desse fastidio.»

«Un mago che cerca una donna? Be’, questa è davvero nuova», commentò Lodola. «Pensavo che la farina avesse fatto le camole, ormai, ma vedo che è ancora buona. Vi preparo qualche frittella? Dov’è l’olio?»

«Devo andare a prenderlo nel ripostiglio. Oh, c’è Prunella! Finalmente! Come state? E Rivochiaro? Come sono andate le cose? Avete venduto gli agnelli?»

A cena, quella sera, erano in nove. Alla debole luce della sera, nella cucina dal pavimento di pietra, seduta alla lunga tavola della fattoria, Therru cominciò a sollevare un poco la testa, e rivolse qualche parola agli altri bambini; ma era ancora impaurita, e quando scese il buio si girò in modo da tenere sotto sorveglianza la finestra.

Solo dopo che Lodola e i figli di questa furono usciti, e Melina ebbe cantato la ninna-nanna a Therru per farla addormentare, solo allora, mentre lei e Prunella lavavano i piatti, Tenar chiese di Ged. Aveva aspettato che Lodola e Melina non fossero presenti, per non dover dare troppe spiegazioni. Non aveva accennato alla presenza di Ged a Re Albi, e non voleva più parlare di quel luogo. Quando pensava a Re Albi, le pareva che la mente si offuscasse.

«L’altro mese, è venuto l’uomo che vi ho mandato, per aiutarvi nel lavoro?»

«Oh, me n’ero dimenticata!» esclamò Prunella. «Falco, quello con i graffi sulla faccia?»

«Sì», rispose Tenar, «Falco.»

«Oh, sì, adesso è sul monte delle Sorgenti Calde, sopra Lissu, con le pecore di Serry. È venuto qui, e ha detto che l’avevi mandato tu, ma non c’era lavoro da fare, qui, visto che Rivochiaro e io badavamo alle pecore, io facevo il formaggio e c’erano già Tiff e Sis ad aiutarci quando ce n’era bisogno. Io mi scervellavo per trovargli un’occupazione, e Rivochiaro ha detto: ‘Chiedi all’uomo di Serry, il suo fattore di Kahedanan, forse hanno bisogno di qualcuno nei pascoli della montagna’. Allora quel vostro Falco è andato, l’hanno preso, e l’indomani è partito. Sì, Rivochiaro gli ha detto: ‘Chiedi all’uomo di Serry’, lui l’ha fatto, e lo hanno preso. Tornerà con il gregge, questo autunno. È in cima alla Lunga Scarpata, sopra Lissu, nei pascoli alti. Credo che l’abbiano preso per le capre. Una persona gentile. Pecore o capre, non so quali preferisse. Spero che non ti dia fastidio, Goha, se non l’abbiamo tenuto qui, ma ti assicuro che non c’era lavoro, con noi tre e con Sis che ha portato dentro il raccolto. Lui ha detto che faceva il pastore al suo paese, dall’altra parte della montagna, un posto sopra Armouth, anche se diceva di non conoscere bene le pecore. Però, può darsi che l’abbiano preso perché hanno le capre.»

«Penso di sì», disse Tenar. Era sollevata e insieme delusa. Era lieta di sapere che si era sistemato, ma avrebbe voluto trovarlo alla Fattoria delle Querce.

Cercò tuttavia di consolarsi: era sufficiente essere a casa, e forse era un bene che Ged non ci fosse, a ricordarle le sofferenze, i sogni, le magie e i terrori di Re Albi, tutte cose che lei preferiva lasciarsi alle spalle. Adesso lei era a casa, e quella era proprio la sua casa, con le pareti e i pavimenti di pietra, le finestre con i vetri a piccoli riquadri, da cui si scorgevano le querce illuminate dalla luce delle stelle, le stanze silenziose e ordinate. Quella sera rimase sveglia a lungo. La figlia dormiva nella stanza accanto, la stanza dei bambini, con Therru, e Tenar dormiva nel suo letto, nel letto di suo marito, da sola.

Poi dormì. Al suo risveglio, non ricordò di avere fatto alcun sogno.

Dopo qualche giorno alla fattoria, l’estate trascorsa sul Grande Precipizio le passò di mente, come se tutto fosse successo in un luogo lontano, in un passato remoto. Nonostante le asserzioni di Prunella che alla fattoria non c’era lavoro, Tenar trovò un mucchio di cose da fare: tutto quel che non era stato fatto durante l’estate, e tutto quel che doveva essere fatto nei campi e nella casera. Lavorava dall’alba al tramonto, e se per caso aveva qualche minuto libero, filava la lana o cuciva per Therru. Il vestito rosso venne terminato, e fece un figurone, con un grembiule bianco per la festa e uno arancione scuro per tutti i giorni. «Sei bellissima!» esclamò Tenar, nel suo orgoglio di sarta, quando la bambina lo provò.

Therru si girò dall’altra parte.

«No, sei davvero bellissima», le disse allora Tenar, in tono diverso. «Ascoltami, Therru, vieni qui. Hai delle cicatrici, brutte cicatrici, perché ti hanno fatto una cosa brutta, malvagia. La gente vede le cicatrici. Ma vede anche te, e tu non sei le tue cicatrici. Tu non sei brutta. Tu non sei malvagia. Tu sei Therru, e sei bellissima. Tu sei Therru, che è in grado di lavorare, di camminare, di danzare meravigliosamente, con il tuo bell’abito rosso.»

La bambina la ascoltò senza mostrare alcuna espressione; il lato liscio, intatto, del suo viso era immobile come quello nascosto dalla cicatrice.

Poi guardò le mani di Tenar e infine, sfiorandogliele con le piccole dita: «È un bellissimo vestito», disse con la sua voce debole e rauca.

Quando Tenar rimase sola, a raccogliere i ritagli di stoffa rossa, senti il bisogno di piangere. Aveva fatto bene a cucirle il vestito, e aveva detto alla bambina la verità. Ma il giusto e il vero non erano sufficienti. Attorno a essi c’era un vuoto, un abisso. L’amore — il suo amore per Therru e quello della bambina per lei — gettava un ponte su quell’abisso, un ponte fragile come una ragnatela, ma l’amore non poteva né riempire né cancellare quell’abisso. Non c’era niente che potesse farlo. E la bambina lo sapeva quanto lei.

Giunse il giorno dell’equinozio, con un bel sole autunnale che splendeva tra la nebbia. Nelle foglie delle querce si affacciarono i primi toni ramati. Mentre puliva i secchi del latte, con la finestra e la porta spalancate che lasciavano entrare l’aria frizzante, Tenar pensò che quel giorno, a Havnor, veniva incoronato il suo giovane re. I signori e le dame si sarebbero presentati con abiti azzurri, verdi e rossi, ma lui si sarebbe vestito di bianco, pensò Tenar. Sarebbe salito alla Torre della Spada, montando sugli stessi scalini su cui erano montati lei e Ged. La corona di Morred gli sarebbe stata posata sulla testa. Lui si sarebbe voltato, al suono delle trombe, e si sarebbe seduto sul trono che era rimasto vuoto per tanti anni, e avrebbe guardato il suo regno con quei suoi occhi scuri, che conoscevano il dolore e la paura. «Governa bene, governa a lungo», gli augurò mentalmente. «Povero ragazzo!» E pensò anche: «Doveva davvero essere Ged a incoronarlo. Avrebbe fatto bene ad andare».

Ma Ged pascolava le pecore del ricco fattore (o erano capre?) nei pascoli in cima al monte. Quell’anno, l’autunno era caldo, asciutto, dorato, e per riportare le pecore in pianura avrebbero aspettato che lassù, sui monti, cadesse la prima neve.