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«Questa notte nevicherà, forse», disse il suo mezzadro Tiff, quando lo incontrò lungo la strada dei pascoli, vicino al Kaheda.

«Nevicherà cosi presto? Spero di no.»

«Comunque, questa notte gelerà, ne sono sicuro.»

E gelò davvero, quella notte; le pozzanghere e gli abbeveratoi si coprirono di una patina opaca di ghiaccio; i giunchi del ruscello cessarono di frusciare, bloccati dal ghiaccio, il vento si fermò, come se anch’esso fosse stato immobilizzato.

Accanto al fuoco — un fuoco più profumato di quello di Edera, perché la legna era quella di un vecchio melo abbattuto in primavera — Tenar e Therru si sedettero a filare e a parlare dopo avere sparecchiato.

«Raccontami la storia del fantasma del gatto», disse Therru con la sua voce roca, avviando la ruota dell’arcolaio per filare un gran mucchio di lana di capra, lucida e leggera.

«Quella storia va bene d’estate.»

Therru piegò la testa sulla spalla.

«In inverno si dovrebbero raccontare solo le grandi storie. Questo inverno imparerai la Creazione di Éa, e così potrai cantarla alla Grande Danza all’inizio dell’estate. Imparerai anche il Canto dell’inverno e Le gesta del giovane re, e alla festa del Ritorno del Sole, quando il sole è verso il nord all’inizio della primavera, potrai cantarle.»

«Non so cantare», sussurrò la bambina.

Tenar aggomitolava la lana della rocca con destrezza e ritmicità.

«Non è solo la voce, a cantare», disse. «La mente canta. La più bella voce del mondo non serve a nulla, se la mente non conosce i suoni.» Slegò l’ultimo pezzo di filo, quello che era stato filato per primo. «Tu possiedi una grande forza, Therru, e la forza senza la conoscenza è pericolosa.»

«Come quelli che non volevano imparare», commentò Therru. «I selvaggi.» Tenar non capì a chi si riferisse, e perciò le rivolse un’occhiata interrogativa. «Quelli che sono rimasti a Occidente», spiegò Therru.

«Ah… i draghi, nel canto della donna di Kemay. Sì. Proprio come dici. Allora, da quale vuoi cominciare? Da come le isole si sollevarono dal mare, o di come re Morred ricacciò indietro le Navi Nere?»

«Le isole», sussurrò Therru.

Tenar avrebbe preferito Le gesta del giovane re, perché immaginava il volto di Lebannen come quello di Morred; ma la scelta della bambina era quella giusta. «Benissimo», disse Tenar. Lanciò un’occhiata al grande libro dei miti di Ogion sulla mensola del focolare, confortata dal fatto che, se si fosse dimenticata qualche parola, lì avrebbe potuto trovarla; trasse un profondo respiro, e incominciò.

All’ora di andare a dormire, Therru sapeva come Segoy avesse sollevato dalle profondità del Tempo la prima delle isole. Poi, invece di cantarle la ninna-nanna, Tenar si sedette sul letto, dopo averle rimboccato le coperte; lei e la bambina recitarono insieme, a bassa voce, la prima strofa del Canto della Creazione.

Tenar riportò in cucina il lumino a olio, con l’orecchio teso al silenzio assoluto. Il gelo aveva bloccato il mondo, l’aveva sigillato. Non si vedevano stelle. L’oscurità premeva contro l’unica finestra della cucina. Il freddo aveva impregnato il pavimento di pietra.

Tornò a sedere accanto al fuoco, perché non aveva ancora sonno. Le grandi parole del canto le avevano sollevato lo spirito, ed era ancora inquieta e incollerita per quel che le aveva detto Edera. Prese l’attizzatoio per far riprendere la fiamma al ceppo, e, quando colpì il legno, le parve di sentire un’eco di quel rumore, dal retro della casa.

Raddrizzò la schiena e ascoltò.

Di nuovo: un tonfo o un colpo, all’esterno della casa. Che fosse la finestra della casera?

Senza lasciare l’attizzatoio, Tenar attraversò la casa, nel buio, fino alla porta della dispensa. Al di là della dispensa c’era la casera. La casa era costruita a ridosso di una collinetta, e quelle due stanze erano scavate nella terra della collina come se fossero cantine, ma erano allo stesso livello delle altre camere. La dispensa aveva solo qualche foro di ventilazione, ma la casera aveva una porta e una finestra, bassa e larga come quella della cucina, nel muro che dava all’esterno. Ferma accanto alla porta della dispensa, Tenar si accorse che qualcuno cercava di aprire o di scassinare la finestra, e udì alcuni uomini parlare a bassa voce.

Selce era sempre stato un uomo molto metodico: tutte le porte della casa, meno una, si potevano sbarrare dalle due parti, con robusti chiavistelli di ghisa che scorrevano entro le loro guide. I chiavistelli venivano regolarmente puliti e oliati, ma nessuno li chiudeva mai.

Tirò il chiavistello della dispensa, che scivolò senza fare rumore ed entrò nel corrispondente anello di ferro fissato allo stipite.

Tenar sentì che la porta esterna della casera veniva spalancata. A uno di loro era venuto in mente di provare ad aprirla, prima di rompere i vetri della finestra, e non aveva incontrato resistenza. Si levò di nuovo il brusio delle loro voci. Poi scese il silenzio, che si protrasse a tal punto che Tenar, sentendo che il suo cuore batteva forte, pensò che quel battito avesse coperto tutti gli altri suoni. Le tremavano le ginocchia, e sentì il freddo del pavimento salirle lungo le caviglie come se fosse la mano di un morto.

«È aperto», mormorò qualcuno, a poca distanza da lei, e Tenar sentì il cuore accelerare i battiti. Posò la mano sul catenaccio, convinta che fosse aperto… che l’avesse aperto invece di chiuderlo. In preda alla confusione, stava già per aprirlo, quando sentì cigolare la porta tra la casera e la dispensa. Conosceva perfettamente quel rumore: era il cardine della porta, in alto. E aveva anche riconosciuto la voce. «È una dispensa», disse Faina, e poi, quando il catenaccio della porta chiusa da Tenar tintinnò contro l’anello: «Questa è chiusa». Altro tintinnio. Poi una sottile lama di luce, affilata come un coltello, guizzò tra la porta e lo stipite. Le toccò il petto, e Tenar si tirò indietro, come se fosse stata ferita.

Di nuovo quel rumore, ma la porta non si mosse. Era pesante, con cardini massicci, e il chiavistello era ben saldo.

Gli uomini mormorarono tra loro. Pensavano di fare il giro della casa, e di provare alla porta d’ingresso. In un attimo, Tenar si trovò all’ingresso, a tirare il catenaccio, senza sapere come ci fosse giunta. Forse era un incubo. Aveva già fatto varie volte quel sogno: che cercavano di entrare nella casa, che infilavano il coltello nella fessura della porta. Le porte… C’era qualche altra porta da cui potessero entrare? Le finestre? Le imposte della stanza da letto… Aveva il respiro talmente corto che temette di non poter arrivare alla stanza di Therru, ma poi si trovò là, e spinse contro i vetri le pesanti imposte. Le cerniere erano rigide, e, quando le due imposte si scontrarono, fecero rumore. Adesso, i banditi sapevano, e sarebbero arrivati. Avrebbero cercato di entrare dalla finestra della camera da letto, la stanza di Tenar, prima che lei riuscisse a chiudere le imposte. E infatti li vide davanti alla finestra.

Vide le loro facce — macchie che si muovevano nell’oscurità — mentre cercava di sganciare l’imposta di sinistra dalla molla che la teneva ferma. Ma era bloccata. Non riuscì a muoverla. Una mano si accostò al vetro, bianca sulla sua superficie.

«È qui.»

«Fateci entrare. Non vi faremo del male.»

«Vogliamo solo parlarvi.»

«Vuole solo vedere come sta la sua bambina.»

Finalmente, Tenar riuscì a sganciare l’imposta e la spinse contro la finestra. Ma se avessero rotto il vetro sarebbero riusciti ad aprire quelle imposte. La chiusura era un semplice gancio, che sarebbe uscito dal legno alla minima pressione.

«Fateci entrare e non vi faremo del male», insisté uno di loro.

Tenar sentì il rumore dei loro passi sul terreno gelato, le foglie cadute che scricchiolavano. Therru era sveglia? Il rumore delle imposte poteva averla svegliata, ma dalla bambina non era giunto alcun rumore. Tenar si fermò sul passaggio tra la sua stanza e quella di Therru. Era buia, silenziosa. Tenar non voleva svegliare la bambina. Doveva rimanere nella stanza con lei. Doveva lottare per lei. Prima aveva in mano l’attizzatoio: dove l’aveva messo? L’aveva posato a terra per chiudere le imposte. Non riuscì a trovarlo. Lo cercò a tentoni nel buio della stanza che pareva non avere muri.