La porta d’ingresso, che dava sulla cucina, tremò sotto le spinte dall’esterno.
Se avesse trovato l’attizzatoio, li avrebbe affrontati, avrebbe lottato contro di loro.
«Di qua!» gridò uno di loro, e Tenar capì che cosa aveva trovato. L’uomo guardava la finestra della cucina: era grande, priva di imposte, facile da raggiungere.
A tastoni, lentamente, Tenar raggiunse la camera da letto. Era la camera di Therru, adesso, e un tempo era stata quella dei suoi figli. Ma non era mai stato messo il chiavistello dalla parte interna, nel timore che i bambini si chiudessero dentro, e poi, spaventati, non riuscissero più ad aprire.
Dietro la collinetta, in fondo al frutteto, Rivochiaro e Prunella dormivano nella loro casa. Se Tenar avesse gridato, forse Prunella l’avrebbe sentita. Se avesse aperto la finestra della camera da letto e avesse gridato… o se avesse svegliato Therru e fossero uscite dalla finestra, e poi fossero scappate di corsa lungo il frutteto… Ma gli uomini erano lì ad aspettarle.
L’angoscia era insopportabile. Il terrore che l’aveva raggelata fino a quel momento s’incrinò e si ruppe, e Tenar, in preda al furore, corse in cucina — che per lei era un’unica macchia di luce rossa -, afferrò il coltello della carne, lungo e affilato, aprì con uno strattone il chiavistello e si fermò sulla soglia. «Fatevi avanti, allora!» esclamò.
Mentre così diceva, si levò un grido, seguito da un suono strangolato, e un uomo gridò: «Attenzione!» Un altro disse: «Qui, da questa parte!»
Poi il silenzio.
La luce dall’interno della cucina illuminò il ghiaccio scuro delle pozzanghere, scintillò sui rami neri delle querce e sulle foglie cadute, argentee. Quando gli occhi le si abituarono all’oscurità, Tenar vide una forma che strisciava verso di lei, sul passaggio davanti alla porta: una massa scura che strisciava e gemeva. Oltre la zona illuminata, una figura indistinta stava arrivando di corsa; quando si fermò, Tenar vide luccicare delle lunghe canne.
«Tenar!»
«Fermo dove sei!» esclamò lei, puntando il coltello.
«Tenar! Sono io… Falco, Sparviero!»
La forma scura in piedi si fermò accanto alla massa nera che giaceva sul passaggio. Alla luce della cucina, Tenar vide un corpo, una faccia, un lungo forcone tenuto alto… come il bastone di un mago, pensò. «Sei tu?» chiese.
Ged si chinò sulla massa nera stesa al suolo.
«L’ho ucciso, credo», disse. Guardò dietro di sé, si alzò. Degli altri banditi non c’era traccia.
«Dove sono?»
«Sono scappati. Dammi una mano, Tenar.»
Senza lasciare il coltello, Tenar, con la mano libera, prese il braccio dell’uomo raggomitolato sul passaggio. Ged lo afferrò per l’altra spalla; insieme lo trascinarono nella cucina. Quando lo girarono, il sangue gli uscì dal petto come da una bottiglia rotta. Aveva la bocca contorta in una smorfia, e si vedeva solo il bianco degli occhi.
«Chiudi la porta», disse Ged, e Tenar andò a tirare il chiavistello.
«I lenzuoli sono nell’armadio», lo informò Tenar, e Ged andò a prenderne uno e lo tagliò per farne delle bende, con cui fasciò il petto e l’addome dell’uomo, dove tre punte su quattro del forcone erano penetrate a tutta forza, procurandogli tre fori da cui, quando lo mossero per bendarlo, uscirono tre rivoli di sangue. Ged lo tenne sollevato, mentre Tenar legava le bende.
«Perché sei qui? Sei venuto con loro?»
«Sì, ma senza che lo sapessero. Non possiamo fare altro, Tenar.» Lasciò che il corpo dell’uomo si afflosciasse a terra e andò a sedersi, asciugandosi la faccia con il dorso della mano sporca di sangue. «Credo di averlo ucciso», ripeté.
«Forse sì.» Tenar guardò le macchie rosse che si allargavano sulla tela con cui avevano fasciato il torace peloso e scarno dell’uomo. Si alzò in piedi e si sentì girare la testa. «Vieni accanto al fuoco», disse a Ged. «Devi essere intirizzito.»
Tenar si chiese come avesse fatto a riconoscerlo al buio. La voce, forse. Indossava un grosso giaccone da pastore, di pelle di montone rovesciata, e un berrettone di lana calato fino alle orecchie; aveva la faccia coperta di rughe e rossa per le intemperie, i capelli lunghi e grigi. Puzzava di fumo di legna, di gelo, di pecore. In quel momento era scosso da brividi. «Vieni accanto al fuoco», ripeté Tenar. «Mettici un po’ di legna.»
Fece come lei diceva. Tenar riempi il bricco e lo mise a scaldare.
Ged aveva la camicia sporca di sangue, e Tenar prese un pezzo di tela e lo bagnò nell’acqua fredda per pulirgli le macchie. Poi glielo diede perché si pulisse le mani. «Che cosa intendevi dire», chiese, «affermando di averli accompagnati senza che lo sapessero?»
«Stavo scendendo dalla montagna. Lungo la strada che porta alle sorgenti del Kaheda.» Parlava con voce incerta, come se fosse senza fiato, e di tanto in tanto, quando rabbrividiva, incespicava sulle parole. «Ho sentito arrivare degli uomini e ho lasciato la strada, mi sono nascosto tra gli alberi. Non avevo voglia di parlare. Non so perché. Nel loro comportamento c’era qualcosa che non mi andava. Mi sembrava gente poco affidabile.»
Tenar annuì con impazienza e si sedette di fronte a lui, dall’altra parte del focolare, e sporgendosi per sentire meglio. Aveva serrato i pugni; si accorse di essersi bagnata il vestito con l’acqua; sentiva freddo alle gambe.
«Mentre passavano, uno di loro ha detto: ‘Fattoria delle Querce’. Da allora in poi, li ho seguiti. Uno di loro continuava a parlare. Della bambina.»
«E che cosa diceva?»
Ged non rispose subito. Dopo qualche istante, proseguì: «Voleva riprendersela. Perché doveva punirla, diceva. E vendicarsi su di te. Perché l’avevi rubata. E diceva…» S’interruppe.
«Che voleva punire anche me.»
«Questo continuavano a ripeterlo anche gli altri.»
«Non è Faina», disse Tenar, indicando il ferito. «E il…»
«Diceva che la bambina era sua.» Anche Ged diede un’occhiata all’uomo, poi tornò a guardare il fuoco. «Sta morendo. Dovremmo andare a chiamare qualcuno.»
«Non morirà», disse Tenar. «Domattina farò venire Edera. Gli altri sono ancora là fuori. Quanti sono?»
«Due.»
«Se deve morire, morirà, e se deve vivere, vivrà. Ma nessuno di noi deve uscire.» Poi si alzò in piedi di scatto, impaurita. «Hai con te il forcone, Ged?»
Lui indicò le quattro lunghe punte che luccicavano, appoggiate vicino alla porta.
Tenar si sedette nuovamente accanto al fuoco. Adesso, anche lei tremava come una foglia, aveva i brividi come Ged quando era entrato. Lui le toccò il braccio. «Adesso è tutto a posto», disse.
«E se fossero ancora fuori?»
«Sono corsi via.»
«Potrebbero ritornare.»
«Due contro due? E noi abbiamo il forcone.»
Tenar abbassò la voce per dirgli, in un bisbiglio, terrorizzata: «La roncola e la falce sono nella capanna».
Ged scosse la testa. «Sono scappati via. Hanno visto… che lo colpivo… e hanno visto te alla porta.»
«Come hai fatto?»
«È corso verso di me. Così anch’io sono corso verso di lui.»
«Prima, intendo dire. Sulla strada.»
«Dopo un po’ hanno cominciato ad avere freddo. Si è messo a piovere, e avevano freddo, e hanno iniziato a parlare di venire qui. Prima, c’era soltanto uno di loro, questo, che parlava della bambina e di te, e di darvi… una lezione.» Non riuscì a proseguire. «Ho la gola secca», disse.
«Anch’io. Ma l’acqua non bolle ancora. Continua.»
Ged riprese fiato e cercò di raccontare in modo coerente la sua storia. «Gli altri due non gli avevano dato molto ascolto, fino a quel momento. Probabilmente gliel’avevano già sentito dire molte volte. E avevano fretta di arrivare a Valmouth: sembravano in fuga; era come se si fossero dovuti allontanare di corsa. Ma poi aveva cominciato a fare freddo, e lui parlava sempre della Fattoria delle Querce, e allora uno degli altri, quello con il berretto di cuoio, ha detto: ‘Be’, perché non andare laggiù a passare la notte con…’»