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«Ho fatto del mio meglio», si giustificò Ged.

Dopo qualche istante, lei rise, in modo un po’ sforzato. «Sì, certamente.»

«Pensa come sarebbe stato facile», riprese Ged, continuando a fissare la brace. «Quando ero un mago, avrei potuto mettere su di loro un incantesimo di legame, fin da quando li ho visti per la prima volta sulla strada, prima che se ne rendessero conto. Avrei potuto portarli a Valmouth come un gregge di pecore. O questa notte, qui a casa tua, pensa che fuochi artificiali avrei potuto fare! Non avrebbero neppure capito che cosa li colpiva.»

«Difatti non l’hanno ancora capito», osservò Tenar.

Ged la guardò. Aveva negli occhi una leggera e incontenibile espressione di trionfo.

«Vero», disse. «Non l’hanno capito.»

«’Abile con il forcone’», mormorò Tenar.

Ged fece un enorme sbadiglio.

«Perché non vai a dormire? La seconda stanza. A meno che tu preferisca stare in compagnia. Vedo arrivare Lodola e Margherita, accompagnate da qualcuno dei loro figli.» Nell’udire le voci si era alzata a guardare dalla finestra.

«Farò come dici», rispose Ged, e si allontanò.

Lodola e il marito, Margherita (la moglie del fabbro) e altri amici del villaggio arrivarono nel corso della giornata per raccontare di nuovo tutto quello che era successo, e per sentire ancora una volta ciò che era successo lì, come aveva detto Ged. Tenar trovò che la loro compagnia la faceva rivivere, la allontanava a poco a poco dalla costante presenza del terrore provato quella notte, finché riuscì a pensarci come a una storia ormai conclusa, e non come a una vicenda che la coinvolgeva ancora e che avrebbe continuato a coinvolgerla.

Era proprio quello che anche Therru doveva imparare a fare, ma non con gli eventi di una notte: con tutta la sua vita.

Quando gli altri se ne furono andati, Tenar confidò a Lodola: «Quel che mi fa irritare con me stessa è di essere stata una stupida».

«Te l’avevo detto, di sbarrare sempre le porte.»

«No, non solo per quello.»

«Ti capisco», rispose Lodola.

«Pensavo che mentre cercavano di entrare, sarei potuta correre da Prunella e Rivochiaro… magari portando con me anche Therru. Oppure, sarei potuta andare io nella capanna a prendere il forcone, o la roncola per potare gli alberi: ha un manico lungo due braccia ed è affilata come un rasoio; la tengo come la teneva Selce. Perché non l’ho fatto? Perché non ho fatto qualcosa? Mi sono limitata a chiudermi dentro, quando sapevo fin dall’inizio che la cosa era inutile. Se non ci fosse stato lui… Falco… Io non ho fatto altro che intrappolare me stessa e Therru. Alla fine sono uscita fuori con il coltello, e mi sono messa a gridare, ma solo perché ero come impazzita. Non credo che sarebbe bastato a metterli in fuga.»

«Non so», disse Lodola. «È stata un’azione folle, ma forse… non so. Che cosa potevi fare, più che mettere la sbarra alle porte? In fondo, è come se per tutta la nostra vita non facessimo altro che mettere la sbarra alle porte. È la casa in cui viviamo.»

Si guardarono attorno, e videro le pareti di pietra, i pavimenti di pietra, il focolare di pietra, la finestra piena di sole della Fattoria delle Querce, la casa dell’agricoltore Selce.

«La ragazza, la donna che hanno ucciso», disse Lodola, guardando Tenar con l’aria di chi la sa lunga. «Era la stessa.»

Tenar annuì.

«Uno di loro mi ha detto che era incinta. Di quattro o cinque mesi.»

Tutt’e due rimasero in silenzio.

«In trappola», ripeté Tenar.

Lodola raddrizzò la schiena e serrò le labbra. «È la paura», disse poi. «Perché abbiamo tanta paura? E perché permettiamo loro di dirci che abbiamo paura? Di che cosa hanno paura, loro?» Prese le calze che stava rammendando, guardò se c’era qualche altro buco, rimase in silenzio per qualche istante e infine chiese: «Perché hanno paura di noi?»

Tenar continuò a filare senza dire niente.

In quel momento arrivò Therru, di corsa, e Lodola la salutò: «Ma è la mia bambina! Vieni a darmi un bacio!»

Therru la abbracciò. «Chi sono gli uomini che hanno preso?» chiese con la sua voce roca, guardando Lodola e Tenar.

Tenar smise di filare e disse lentamente:

«Uno è Faina. L’altro è un uomo chiamato Lince. Il ferito si chiama Tinca». Fissò con attenzione la faccia di Therru e vide il fuoco, vide la cicatrice arrossarsi. «La donna che hanno ucciso si chiamava Senny, mi pare.»

«Senini», sussurrò la bambina.

Tenar annuì.

«L’hanno uccisa loro?»

Tenar annuì di nuovo.

«Girino mi ha detto che sono stati qui.»

Tenar annuì di nuovo.

La bambina si guardò attorno, come avevano fatto le due donne, ma la sua espressione era di assoluta ribellione: lei non vedeva pareti.

«Li ucciderete?»

«Forse li impiccheranno.»

«Per ucciderli?»

«Sì.»

Therru annuì, con indifferenza. Uscì e tornò a giocare con i figli di Lodola, che si erano riuniti attorno al pozzo.

Le due donne rimasero silenziose. Continuarono a rammendare e a filare, senza parlare, nella casa di Selce, accanto al fuoco.

Dopo qualche tempo, Lodola chiese: «E quell’uomo, il pastore, quello che li ha seguiti fin qui, dov’è finito? Falco, hai detto che si chiama?»

«È di là che dorme», spiegò Tenar, indicando la porta interna.

«Ah», disse Lodola.

La ruota dell’arcolaio fece qualche giro. «Lo conosco da parecchio tempo.»

«Ah. L’hai conosciuto a Re Albi, suppongo.»

Tenar annuì. La ruota continuò a girare.

«Per seguire quei tre e per attaccarli con un forcone, al buio, ci vuole un certo coraggio. E non si tratta di un giovanotto, vero?»

«No», rispose Tenar. Dopo qualche istante, proseguì: «È stato malato, e cercava lavoro. Perciò l’ho fatto parlare con Rivochiaro, perché lo prendesse alla fattoria. Ma Rivochiaro è convinto di poter fare tutto da solo, e l’ha mandato con i pastori, sulle montagne. Ieri sera stava appunto ritornando dai pascoli alti».

«Allora, conti di tenerlo qui.»

«Se lui accetta di rimanere.»

Dal villaggio giunse ancora un altro gruppo, che volle sentire la storia di Goha e raccontare a sua volta le proprie prodezze nella grande cattura degli assassini, guardare il forcone e confrontare le punte con le tre ferite sul petto dell’uomo chiamato Tinca, e ripetere ancora una volta la storia. Tenar fu lieta di veder arrivare la fine di quella lunga giornata, di chiamare Therru e di chiudere la porta.

Alzò la mano per tirare il chiavistello. Poi la abbassò e si impose di non sbarrare la porta.

«Sparviero è nella tua stanza», le disse Therru, che era andata nella dispensa a prendere le uova.

«Scusa. Mi sono dimenticata di dirti che era qui.»

«Lo conosco», disse Therru, lavandosi mani e faccia nel lavandino. E, quando arrivò Ged, spettinato e con gli occhi gonfi, corse da lui per abbracciarlo.

«Therru», disse Ged, prendendola in braccio. Lei lo strinse per qualche istante, poi lo lasciò.

«Conosco l’inizio della Creazione», gli disse con orgoglio.

«E me la canteresti?» rispose Ged. Guardò di nuovo Tenar per chiederle il permesso di sedersi, poi si accomodò accanto al fuoco.

«Posso solo recitarla.»

Lui fece un cenno affermativo e attese, con aria piuttosto grave. La bambina recitò:

La creazione dalla distruzione,

la fine dall’inizio,

chi sa distinguerli con certezza?

Noi conosciamo solo la porta tra di loro

in cui entriamo quando ce ne andiamo.

Tra gli esseri che ogni volta ritornano,

il più antico di tutti, il Guardiano della Soglia, Segoy…

La voce della bambina era come il fruscio di una spazzola di metallo su una lama, come le foglie secche, come il sibilo della fiamma. Arrivò alla fine della prima strofa:

Poi dalla schiuma sorse la fulgida Éa.