Nell’ascoltarlo, la ragazza che sedeva accanto al focolare e che guardava le fiamme vedeva il falco; vedeva l’uomo; vedeva gli uccelli che volavano da lui, al suo richiamo, quando li chiamava per nome, e battevano le ali per tenersi al suo braccio con i loro artigli appuntiti; e vedeva se stessa come il falco, come l’uccello selvatico.
TOPI
Townsend, il sensale di pecore che aveva portato alla fattoria della Valle di Mezzo il messaggio di Ogion, si presentò un pomeriggio alla casa del mago.
«Intendete vendere le capre, adesso che Lord Ogion è morto?»
«È una possibilità», rispose Tenar, senza compromettersi. In effetti si era chiesta come sarebbe vissuta, se fosse rimasta a Re Albi. Come tutti i maghi, Ogion veniva mantenuto dalle persone che aiutava con il suo Potere: nel suo caso, tutti gli abitanti di Gont. Aveva solo da chiedere, e la gente era ben lieta di dargli l’occorrente: un affare vantaggioso, in cambio dell’amicizia di un mago. Ma Ogion non aveva mai bisogno di chiedere. Anzi, in genere doveva regalare ad altri il superfluo: alimenti, vestiti, attrezzi, animali e tutti gli altri oggetti, necessari o decorativi che gli venivano offerti, o semplicemente lasciati davanti alla porta. «Che cosa me ne faccio?» chiedeva, perplesso, con le braccia piene di galletti irritati e starnazzanti, o di iarde di stoffa, o di vasi di barbabietole in agro.
Ma Tenar aveva lasciato nella Valle di Mezzo i suoi mezzi di sostentamento. Quando era partita in tutta fretta da casa, non si era chiesta quanto sarebbe durata la sua assenza. Non aveva portato con sé i sette pezzi d’avorio che erano il tesoro di Selce; del resto, nel villaggio, quel denaro non le sarebbe servito a nulla, tranne che a comprare un terreno o qualche grosso animale, o per trattare con qualche mercante di Porto Gont che portava pellicce di pellawi o seta di Lorbanery ai ricchi contadini e ai piccoli signori di Gont. La fattoria di Selce dava tutto quel che occorreva a lei e a Therru per vivere e per vestirsi; invece, le sei capre di Ogion, i suoi fagioli e le sue cipolle erano soprattutto un divertimento, e non una necessità. Fino a quel giorno era vissuta contando sulla dispensa di Ogion, sulla generosità della gente del villaggio, che le portava dei doni per rispetto verso Ogion, e sui doni di Zia Muschio. Proprio il giorno prima la strega le aveva detto: «Cara, la covata della mia gallina dal collare bianco si è schiusa e ti porterò due o tre pulcini, quando saranno capaci di trovarsi da mangiare da soli. Il mago non ne voleva, diceva che erano troppo rumorosi e stupidi, ma che casa è, senza qualche gallina che va e viene?»
In effetti, le galline di Muschio entravano e uscivano liberamente, le dormivano sul letto e arricchivano di nuovi odori la stanza fumosa, buia e incredibilmente puzzolente in cui abitava la strega.
«C’è una capretta di un anno, bianca e marrone, che potrebbe diventare una buona capra da latte», disse Tenar, rivolta al sensale dalla faccia affilata.
«Pensavo di prenderle tutte», rispose lui. «Sono cinque o sei, vero?»
«Sei. Sono nel recinto, se volete vederle.»
«Andrò.» Ma non si mosse. Nessuna delle due parti, naturalmente, doveva mostrarsi ansiosa di concludere l’affare.
«L’avete vista, la grande nave che è entrata in porto?»
La casa di Ogion era orientata a nordovest, e da essa si scorgevano soltanto i promontori rocciosi all’imboccatura della baia, chiamati le Braccia della Rupe; tuttavia, da vari punti del villaggio, guardando lungo la ripida strada che conduceva a Porto Gont, si potevano vedere i moli e il porto. Quello di osservare le navi era un tradizionale passatempo di Re Albi. In genere c’era sempre almeno una coppia di vecchi seduta sulla panca dietro la bottega del fabbro, da cui si godeva la vista migliore, e anche se probabilmente, in tutta la loro vita, non avevano mai percorso le quindici miglia di curve e controcurve che portavano al Porto, guardavano l’arrivo e la partenza delle navi come se fosse uno spettacolo strano e insieme familiare, organizzato a loro esclusivo beneficio.
«Da Havnor, ha detto il figlio del fabbro. Era sceso al porto per procurarsi dei lingotti di ferro. È arrivata ieri sera sul tardi. La grande nave viene dal Grande Porto di Havnor, ha detto.»
Probabilmente parlava solo per impedirle di pensare al prezzo delle capre, e l’astuzia del suo sguardo era dovuta forse soltanto al modo in cui erano fatti i suoi occhi. Ma il Grande Porto di Havnor non aveva mai avuto molti rapporti con Gont, isoletta povera e remota, nota solo per i suoi maghi, i suoi pirati e le sue capre; e qualcosa, nelle parole «la grande nave», allarmò Tenar.
«Dicono che a Havnor c’è un re, adesso», continuò il sensale, dandole un’occhiata di traverso.
«Potrebbe essere una buona cosa», commentò Tenar.
Townsend rispose, con un cenno d’assenso: «Potrebbe tenere lontana la marmaglia straniera».
Tenar annuì con un grazioso cenno della sua testa di straniera.
«Ma c’è qualcuno, a Porto Gont, che potrebbe non essere d’accordo.» Il sensale intendeva riferirsi ai capitani pirati di Gont, il cui controllo delle rotte di nordest, negli ultimi anni, era aumentato al punto che molti degli abituali contatti con le Isole Centrali dell’Arcipelago erano stati interrotti; le conseguenze erano state negative per tutti, a Gont, tranne che per i pirati: anche questo non impediva che essi venissero considerati degli eroi da gran parte degli abitanti dell’isola. Per quanto ne sapeva Tenar, suo figlio poteva benissimo essersi imbarcato su una nave pirata, e comunque stare più al sicuro su quella che su un normale mercantile. Meglio essere squalo che aringa, si diceva.
«C’è sempre qualcuno che non è contento, qualunque cosa succeda», rispose Tenar, seguendo meccanicamente le regole della conversazione. Un attimo dopo, tuttavia, decise di porre fine a quello scambio di battute e disse, alzandosi: «Vi mostro le capre. Potete dare loro un’occhiata, ma non so se ne venderemo». Accompagnò il sensale al recinto e lo lasciò solo. Quell’uomo non le piaceva. Non era colpa sua se le aveva portato brutte notizie la prima volta e forse anche la seconda, ma aveva lo sguardo sfuggente, e a lei non piaceva la sua compagnia. Non intendeva vendergli le capre di Ogion. Neppure Sippy.
Dopo che Townsend se ne fu andato a mani vuote, Tenar provò un certo disagio. Gli aveva detto: «Non so se ne venderemo», e si era resa conto che parlargli al plurale era stata una sciocchezza, dato che l’uomo non aveva chiesto di conferire con Sparviero e neppure aveva alluso alla sua presenza come facevano sempre gli uomini che trattavano affari con le donne, soprattutto quando queste ultime si rifiutavano di vendere.
Tenar non sapeva che cosa si dicesse di Ged al villaggio, della sua presenza e della sua assenza. Ogion, distante e silenzioso, e per alcuni versi temuto, era il loro mago e compaesano. Di Sparviero potevano essere orgogliosi, ma solo come nome: l’Arcimago che era vissuto per qualche tempo a Re Albi e aveva fatto cose meravigliose, come vincere in astuzia un drago nelle Novanta Isole e riportare indietro, da qualche luogo lontano, l’Anello di Erreth-Akbe. Però non lo conoscevano. Né Ged conosceva gli abitanti del villaggio. Dal momento in cui era giunto sull’isola non era mai andato al villaggio: solo nella foresta, in luoghi disabitati. Tenar, sino ad allora, ci aveva riflettuto, ma ora capiva che Ged evitava il villaggio esattamente come lo evitava Therru.