Tuttavia, dovevano avere parlato di quell’uomo, nel villaggio. Ma le chiacchiere sulle attività dei maghi non andavano lontano. Erano cose troppo misteriose: la vita degli uomini di Potere era strana e del tutto diversa da quella delle persone normali. «Lascia perdere», aveva sentito dire dagli abitanti della Valle di Mezzo, allorché qualcuno si dava a considerazioni un po’ troppo disinvolte su un lavoratore stagionale venuto da fuori o sul loro mago, Faggio. «Lascia perdere. Lui va per la sua strada, non per la nostra.»
Riguardo poi al fatto che lei, Tenar, fosse rimasta a curare e a servire un simile uomo di Potere, ebbene, anche questo argomento non veniva mai discusso: era un’altra cosa da «lasciar perdere». Lei era andata poche volte al villaggio, e la gente non si era comportata nei suoi confronti né con amicizia né con ostilità. Tutti sapevano che Tenar era vissuta in passato nella casa del tessitore Ventaglio, che era la pupilla del vecchio mago, il quale aveva mandato Townsend dall’altra parte della montagna a cercarla: benissimo. Ma lei era arrivata con quella bambina terribile a vedersi, e chi si sarebbe mai accompagnato a una così, in piena luce? E che tipo di donna poteva essere l’allieva di un mago, che faceva da infermiera a un altro mago? Lì sotto c’era qualche stregoneria, senza dubbio, e forestiera, per giunta. Però, nonostante questo, lei era la moglie di un ricco agricoltore della Valle di Mezzo; anche se adesso lui era morto, e lei era solo la sua vedova. Be’, chi può pretendere di capire il comportamento degli stregoni? Lascia perdere, è meglio…
Quando vide arrivare l’Arcimago di Earthsea, lo raggiunse al cancello e gli disse: «È arrivata una nave dalla città di Havnor».
Ged si bloccò. Accennò a fare un movimento, e subito lo interruppe, ma Tenar lo vide benissimo: per un momento, era stato tentato di voltarsi per fuggire, per scappare via come un topo minacciato da un falco.
«Ged!» esclamò. «Che cosa c’è?»
«Non posso», spiegò lui. «Non posso affrontarli.»
«Chi?»
«I suoi uomini. Gli uomini del re.»
Il suo volto era diventato cinereo, proprio come quando era arrivato sull’isola; si guardava attorno, alla ricerca di un nascondiglio.
Il suo terrore era così immediato e così privo di difese, che Tenar pensò solo a evitargli l’incontro. «Nessuno ti obbliga a vederli», disse. «Se arriverà qualcuno, lo manderò via. Entra in casa, adesso. Sei digiuno da stamattina.»
«C’era un uomo.»
«Era Townsend, venuto a comprare le capre. L’ho mandato via. Vieni!»
Lui la seguì e, quando furono in casa, Tenar chiuse la porta.
«Non possono farti del male, ne sono sicura, Ged. E poi, perché dovrebbero?»
Ged si sedette al tavolo e scosse la testa con ostinazione. «No, no.»
«Sanno che sei qui?»
«Non saprei.»
«Ma di che cosa hai paura?» chiese Tenar, non con ira, ma con l’autorevolezza della ragione.
Lui si passò le mani sul viso, strofinando le tempie e la fronte, e abbassò lo sguardo. «Ero…» mormorò. «Non sono…»
Non riuscì a dire altro.
Tenar lo interruppe. «È tutto a posto, è tutto a posto», lo tranquillizzò. Non volle toccarlo per non accrescere la sua umiliazione con una parvenza di pietà. Era in collera con lui, e per quello che poteva capitargli. «Non è affar loro», disse, «dove ti trovi, o chi sei, e quello che vuoi fare o non vuoi fare! Se vengono come spioni, possono andarsene come curiosi.» Era un detto di Lodola. Tenar comprese che le mancava molto la conversazione con una donna comune, piena di buon senso. «Comunque, chi ha detto che la nave ha a che fare con te? Può darsi che siano venuti semplicemente a combattere contro i pirati. E sarebbe ora che il re si decidesse a farlo… Ho trovato del vino nell’armadio, un paio di bottiglie, e mi chiedo da quanto tempo Ogion le aveva messe via. Penso che un bicchiere di vino farebbe bene a tutt’e due. E anche un po’ di pane e di formaggio. La piccola ha pranzato e poi è andata via con Erica a dare la caccia alle rane; può darsi che per cena ci siano cosce di rana, ma per ora c’è solo pane e formaggio. E vino. Mi chiedo da dove venga, chi l’abbia dato a Ogion, quanti anni possa avere.» Continuò a parlare, chiacchiere di donna che non avevano bisogno di risposta e che impedivano a lui di interpretare nel modo sbagliato un eventuale silenzio, finché non avesse superato la crisi della vergogna, non avesse mangiato qualcosa e bevuto un bicchiere del vecchio, profumato vino rosso.
«È meglio che me ne vada, Tenar», disse Ged. «Finché non avrò imparato a essere quel che sono adesso.»
«Andare dove?»
«Sulla montagna.»
«A vagabondare… come Ogion?» Lo fissò. Si rammentò di quando camminava con Ged lungo le strade di Atuan, e si prendeva gioco di lui: «I maghi chiedono spesso la carità?» E Ged aveva risposto: «Sì, ma cercano sempre di dare qualcosa in cambio».
Gli chiese con cautela: «Per qualche tempo, non potresti andare avanti come mago della pioggia, o come cercatore?» E gli riempi il bicchiere.
Lui scosse la testa. Bevve il vino, poi distolse lo sguardo. «No», disse. «Niente del genere.»
Tenar non gli credette. Avrebbe voluto contraddirlo, protestare: come può essere, come puoi dire questo… come se avessi dimenticato tutto quello che conosci, tutto quello che hai imparato da Ogion e a Roke, e nei tuoi viaggi! Non puoi avere dimenticato le parole, i nomi, i gesti della tua arte. Hai imparato il tuo Potere, te lo sei guadagnato! Si trattenne dal dirglielo, ma mormorò: «Non capisco. Come può, tutto questo…»
«Un bicchiere d’acqua», spiegò Ged, inclinando un poco il bicchiere, come per versare il vino. E aggiunse, dopo un momento: «Ma non capisco perché mi ha riportato indietro. La gentilezza dei giovani è spesso crudele… Così, sono qui, e devo andare avanti, finché non ritornerò laggiù».
Tenar non capì esattamente quel che voleva dire, ma colse un accento di biasimo o di rimpianto che, in lui, la stupì e la irritò. Disse sostenuta: «È stato Kalessin a riportarti qui».
L’interno della casa era buio, con la porta chiusa: l’unica luce era quella del tardo pomeriggio, che filtrava dalla piccola finestra a occidente. Tenar non riusciva a cogliere l’espressione di Ged; ma questi levò il bicchiere nella sua direzione, e, con un pallido sorriso, bevve.
«Gran vino», sentenziò. «Ogion deve averlo avuto da qualche grosso mercante o da un pirata. Non ne ho mai bevuto uno così prelibato, neppure a Havnor.» Rigirò fra le dita il tozzo bicchiere, e lo fissò. «Mi darò un altro nome», disse, «e andrò dall’altra parte della montagna, ad Armouth e nella Foresta Orientale, dove sono nato. C’è la raccolta del fieno. Cercano sempre aiuto, all’epoca della fienagione e del raccolto.»
Tenar non rispose. Nelle condizioni in cui era Ged, fragile e malaticcio, gli avrebbero dato quel genere di lavoro solo per carità o per umiliarlo; e lui, in qualsiasi caso, non era in grado di svolgerlo.
«Le strade non sono più quelle di una volta», disse poi. «Negli ultimi anni si sono riempite di ladri e di bande di sfaccendati. Marmaglia straniera, come dice il mio amico Townsend. È sconsigliabile viaggiare da soli.»
Guardandolo nella penombra per controllare come accoglieva quella notizia, Tenar si chiese che cosa provasse Ged di fronte alla paura, una sensazione del tutto nuova per lui dato che, un tempo, nessun essere umano poteva spaventarlo.
«Ogion, però…» cominciò a dire Ged, e poi s’interruppe, ricordandosi solo allora che Ogion era un mago.
«Nella parte meridionale dell’isola», proseguì Tenar, «ci sono molti pascoli. Pecore, capre, mucche. Le portano sui monti prima della Grande Danza, e le pascolano lassù fino alle piogge. Hanno sempre bisogno di pastori.» Bevve un sorso del vino di Ogion. Le parve di avere nuovamente nella bocca il nome del drago. «Ma perché non puoi stare qui?»