«Non nella casa di Ogion. È il primo luogo dove verranno a cercarmi.»
«E anche se vengono? Che cosa vogliono da te?»
«Che torni a essere quello che ero.»
La sofferenza della sua voce la raggelò.
Tenar rimase in silenzio, cercando di ricordare che cosa si provasse a essere potente, a essere la Divorata, la sacerdotessa delle Tombe di Atuan, e poi a perdere tutto quel Potere, a gettarlo via, a diventare semplicemente Tenar, solo se stessa. Pensò a che cosa si provava a essere una donna nella primavera della vita, con i figli e un marito, e poi a perdere tutto, a diventare una vedova anziana e senza Potere. Ma non riuscì a comprendere la vergogna di Ged, il tormento della sua umiliazione. Forse solo un uomo poteva provarli. Una donna era abituata alle umiliazioni.
O forse aveva ragione Zia Muschio: una volta sparita la polpa, il guscio era vuoto.
Pensieri da strega, si disse. Allora, per distogliere la propria mente — e quella di Ged — da quel tipo di considerazioni, e perché il vino forte e profumato la rendeva ardita, disse, ridendo: «Sai, pensavo a Ogion che mi insegnava, e a me che invece di proseguire mi sono trovata un marito… Quel giorno, il giorno del mio matrimonio, mi sono detta: Ged se la prenderà, quando lo verrà a sapere!»
«Infatti», rispose lui.
Lei attese che continuasse.
Ged continuò: «Mi sono irritato».
«Incollerito», disse Tenar.
«Incollerito», confermò lui.
Le riempì il bicchiere.
«Avevo la capacità di riconoscere il Potere, allora», disse Ged. «E tu… ne risplendevi, in quel luogo terribile, il Labirinto, in quell’oscurità…»
«Dimmi, allora, che cosa avrei dovuto fare del mio Potere e delle conoscenze che Ogion aveva cercato di darmi?»
«Usarli», rispose Ged.
«E come?»
«Come viene usata l’arte magica.»
«Usata da chi?»
«Dai maghi», rispose Ged, un po’ a fatica.
«Magia sono dunque le arti e le pratiche dei maghi e dei sapienti?»
«Che altro significato può avere?»
«Non può davvero averne altri?» chiese Tenar.
Ged rifletté su quelle parole, e una o due volte incrociò lo sguardo con quello di Tenar.
«Quando Ogion mi insegnava», disse Tenar, «qui, accanto a questo stesso focolare, le parole della Lingua Vera erano forti e facili sulle mie labbra come sulle sue. Era come imparare di nuovo una lingua che parlavo prima di nascere. Ma il resto, i miti, le Rune di Potere, gli incantesimi, le leggi, l’evocazione delle forze, tutto era come morto per me. Una lingua straniera. A quell’epoca pensavo che avrei potuto vestirmi da guerriero, con la lancia e la spada e le piume sull’elmo, ma che non sarebbe stato adatto a me, vero? Che cosa avrei fatto della spada? Sarebbe bastata a fare di me un eroe? Mi sarei solamente trovata in abiti non adatti a me, e non sarei nemmeno riuscita a camminare.»
Bevve un sorso di vino.
«Perciò mi sono tolta tutto», concluse, «e mi sono rimessa i miei vestiti.»
«Che cosa ha detto Ogion, quando lo hai lasciato?»
«Che cosa diceva Ogion, in genere?»
A queste parole, sulle labbra di Ged ricomparve l’ombra di un sorriso.
Tenar annuì.
Dopo qualche istante, la donna proseguì, a voce più bassa: «Mi aveva preso come allieva perché eri stato tu a portarmi. Non avrebbe voluto avere altri apprendisti dopo di te, e non avrebbe mai preso una ragazza, se non per tua richiesta. Ma mi voleva bene. Mi trattava con rispetto. E io lo amavo e lo rispettavo. Tuttavia non poteva darmi quello che desideravo, e io non potevo prendere quello che aveva da darmi. Lui l’aveva capito. Eppure, Ged… quando ha visto Therru è stato diverso. Il giorno prima di morire. Tu dici — Muschio dice — che il Potere riconosce il Potere. Non so che cosa abbia visto in lei, ma Ogion mi ha detto: ‘Insegnale!’ e ha detto anche…»
Ged attese.
«Ha detto: ‘Impareranno a temerla’», continuò la donna. «E anche: ‘Insegnale tutto. Non Roke’. Non so che cosa intendesse dire. Come posso saperlo? Se fossi rimasta qui con lui, potrei saperlo, potrei essere in grado di insegnarle. Ma ho pensato: arriverà Ged, e lui saprà. Saprà che cosa insegnarle, che cosa deve sapere la mia povera piccola maltrattata.»
«Non lo so», rispose Ged, con voce molto bassa. «Ho visto… Nella bambina vedo solo il male che le è stato fatto.»
Bevve tutto il vino rimasto nel bicchiere.
«Non ho niente da darle», disse.
Qualcuno bussò alla porta, piano. Ged trasalì immediatamente e, con lo stesso scatto del corpo, cercò un posto dove nascondersi.
Tenar andò alla porta, e fiutò l’odore di Muschio ancor prima di riconoscerla.
«Uomini al villaggio», bisbigliò la vecchia, in tono grave. «Gente elegante, venuta dal porto, dalla grande nave che è giunta dalla città di Havnor, dicono. Venuta a cercare l’Arcimago, dicono.»
«Non desidera vederli», disse Tenar, debolmente. Non aveva alcuna idea sul da farsi.
«Ne ero sicura», disse la strega. E dopo una pausa: «Dov’è, allora?»
«Sono qui», rispose Sparviero, avvicinandosi alla porta e spalancandola. «Hanno già saputo dove mi trovo?» chiese.
«Non da me», rispose Muschio.
«Se dovessero venire qui», osservò Tenar, «basterebbe dire loro di andarsene. Dopotutto, sei l’Arcimago.»
Né Ged né Muschio, però, badavano a lei, in quel momento.
«Non verranno certamente a cercarvi a casa mia», disse Muschio. «Venite pure, se volete.»
Ged la seguì, e rivolse un’occhiata a Tenar, ma senza parlare.
«Ma che cosa devo dire a quegli uomini, se vengono qui?» chiese Tenar.
«Non dirgli niente, cara», rispose la strega.
Erica e Therru fecero ritorno dallo stagno con un bottino che ammontava a sette rane in una borsa di rete, e Tenar si mise subito all’opera per tagliare le cosce, spellarle e prepararle per la cena delle cacciatrici. Aveva appena terminato, quando sentì giungere alcune voci dall’esterno e, alzando gli occhi verso la porta aperta, vide alcune persone ferme sulla soglia: uomini con il cappello in testa, luccichio di oro al collo, riflesso di gemme alle dita. «La signora Goha?» chiese uno di loro, in tono cortese.
«Oh, entrate!» rispose lei.
Entrarono: erano cinque uomini, che sembravano almeno il doppio del loro numero, nella piccola stanza dal soffitto basso. Erano tutti alti, e certamente erano grandi signori. Diedero un’occhiata attorno, e anche Tenar vide quel che vedevano i loro occhi.
Vedevano una donna in piedi accanto al tavolo, con in mano un coltello lungo e affilato. Sul tavolo un tagliere con, da un lato, un mucchietto di cosce di rana biancastre, dall’altro un mucchietto di rane morte, sporche di sangue. Nell’ombra, dietro la porta, qualcuno si nascondeva: una bambina, ma una bambina deforme, con solo mezza faccia e una mano rattrappita. Su un pagliericcio, sotto l’unica finestra della casa, una giovane donna, alta e ossuta, li fissava a bocca aperta. Aveva le mani sporche di fango, e la sua gonna bagnata puzzava di acqua stagnante. Quando si accorse di essere guardata, si nascose la faccia dietro la gonna, e così facendo si scoprì le gambe fino alla coscia.
Distolsero lo sguardo da lei e dalla bambina dietro la porta, e perciò non rimase loro altro da guardare che la donna con le rane.
«Signora Goha», ripeté uno di loro.
«Sì, sono io», rispose Tenar.
«Veniamo da Havnor, da parte del re», disse l’uomo dalla voce cortese. Aveva la faccia in ombra, e Tenar non riuscì a distinguerla. «Cerchiamo l’Arcimago Sparviero di Gont. Re Lebannen sarà incoronato all’equinozio d’autunno, e vorrebbe avere con sé l’Arcimago, suo signore e amico, durante i preparativi dell’incoronazione, nonché essere incoronato da lui, se accetta.»