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L’uomo aveva parlato in tono solenne, ufficiale, come se si fosse rivolto a una dama di corte. Indossava semplici calzoni al ginocchio, di cuoio leggero, e una camicia di lino impolverata per la lunga arrampicata da Porto Gont, ma era di tela fine, con ricami d’oro intorno al collo.

«L’Arcimago non c’è», rispose Tenar.

Due ragazzini del villaggio fecero capolino alla porta, si tirarono indietro, si affacciarono di nuovo e poi corsero via schiamazzando.

«Forse potete dirci dove si trova in questo momento, signora Goha», insistette l’uomo.

«No, non posso dirlo.»

Tenar li osservò. A tutta prima, aveva avuto paura di loro — forse il panico di Ged si era trasmesso anche a lei, oppure la vista di quegli estranei le aveva causato una sorta di sciocca apprensione — ma ormai il timore si stava dileguando. Dopotutto, si trovava nella casa di Ogion, e sapeva bene perché Ogion non avesse mai avuto paura della gente importante.

«Dovete essere stanchi, dopo tanto cammino», disse loro. «Non volete sedervi? Ho del vino. Lavo solo i bicchieri.»

Prese il tagliere e lo posò sull’acquaio, mise le cosce di rana nella dispensa, buttò il resto nel secchio degli avanzi, che Erica portava poi ai maiali del tessitore del villaggio, si lavò le mani e le braccia nel catino, lavò il coltello, versò dell’acqua pulita e sciacquò i due bicchieri in cui avevano bevuto lei e Ged. Nella credenza c’erano un altro bicchiere e due tazze di terracotta, senza manico; li posò sul tavolo e servì il vino agli ospiti: nella bottiglia ne era rimasto a sufficienza per tutti. Gli uomini si erano scambiati un’occhiata e non si erano seduti. La scarsità di sedie li giustificava. Le regole dell’ospitalità, però, imponevano loro di accettare quel che veniva offerto. Ciascuno prese da lei il bicchiere o la tazza, mormorando un ringraziamento. Levarono il bicchiere verso di lei e bevvero.

«Per il mio nome!» esclamò uno di loro, sorpreso.

«Vino delle Andrades… La vendemmia tardiva», disse un altro, sgranando gli occhi.

Il terzo scosse la testa. «Andrades, Anno del Drago», disse con reverenza.

Il quarto annuì e bevve un secondo sorso, impressionato.

Il quinto, che era quello che aveva parlato per primo, sollevò di nuovo la tazza in direzione di Tenar e disse: «Voi ci accogliete con un vino da re, signora».

«Era di Ogion», rispose lei. «Questa era la casa di Ogion, e adesso è la casa di Aihal. Lo sapevate, signori?»

«Sì, signora. Il re ci ha indirizzato a questa casa, convinto che l’Arcimago venisse qui; se n’è ancor più convinto quando a Roke e a Havnor è giunta notizia della morte del suo maestro. Ma è stato un drago a portare l’Arcimago da Roke a qui. E, da allora, da lui non è giunta parola, né a Roke né al re. E sta molto a cuore al re, ed è nell’interesse di tutti sapere che l’Arcimago è qui, e che sta bene. Potete dirci se è venuto qui, signora?»

«Non posso dirlo, mi dispiace», rispose Tenar, ma era una risposta un po’ troppo ambigua, e per di più era la seconda volta che la dava: anche gli uomini l’avevano notato. Raddrizzò le spalle e chiarì: «Intendo dire che non posso parlare. Penso che se l’Arcimago vorrà venire, verrà, e che se invece non vorrà farsi trovare, non lo troverete. Non penso che andreste a cercarlo contro la sua volontà».

Il più vecchio di loro, e il più alto, disse: «La nostra volontà è quella del re».

E quello che aveva parlato per primo aggiunse, in tono conciliante: «Noi siamo solo messaggeri. Quel che c’è tra il re e l’Arcimago riguarda esclusivamente loro due. Noi vogliamo solo portare il messaggio. E la risposta».

«Se potrò, gli farò pervenire il vostro messaggio.»

«E la risposta?» chiese il più vecchio del gruppo.

Tenar non disse niente, e allora l’uomo che aveva parlato per primo aggiunse: «Rimarremo qui alcuni giorni, al castello del Signore di Re Albi, il quale, saputo dell’arrivo della nostra nave, ci ha offerto la sua ospitalità».

Chissà perché, Tenar ebbe l’impressione che fosse scattata una trappola o si fosse stretto un cappio. La vulnerabilità di Ged, la debolezza dell’Arcimago l’avevano contagiata. Non avendo altre armi, si difese con la sua maschera, il suo aspetto di semplice massaia di mezz’età. Ma era davvero una maschera? Era anche la verità, e quel genere di cose era ancor più sottile dei travestimenti e delle metamorfosi dei maghi. Piegò la testa da un lato ed esclamò: «Sarà molto più adatto alle vostre signorie. Come vedete, viviamo molto semplicemente, qui, come il vecchio mago».

«E bevete vino delle Andrades», disse quello che aveva riconosciuto l’annata: un bell’uomo, dagli occhi intelligenti e dal sorriso simpatico. Tenar, in ossequio alla sua parte, abbassò gli occhi. Ma quando si accomiatarono e uscirono, capì che, qualunque cosa sembrasse o facesse, se ancora non sapevano che lei era Tenar dell’Anello, presto lo avrebbero saputo; così avrebbero avuto la conferma che conosceva l’Arcimago e che poteva guidarli a lui, se davvero intendevano cercarlo.

Quando se ne furono andati, Tenar trasse un profondo respiro di sollievo, e così fece Erica, che finalmente chiuse la bocca, dopo averla tenuta aperta per tutto il tempo della permanenza di quegli uomini.

«Non lo farò mai», disse, in tono di completa soddisfazione, e corse a vedere dove fossero finite le capre.

Therru uscì dall’angolo buio dietro la porta, dove si era barricata contro gli estranei proteggendosi con il bastone di Ogion, il bastone di ontano di Tenar e il suo bastone di nocciolo. Camminava a piccoli passi, di lato, come faceva un tempo, prima che si trasferissero in casa di Ogion: senza alzare la faccia, la testa piegata contro la spalla per non mostrare la cicatrice.

Tenar si inginocchiò per prenderla tra le braccia. «Therru», la rassicurò, «non intendono farti del male.»

Ma la bambina non voleva guardarla in faccia. Tra le braccia di Tenar, era rigida come un pezzo di legno.

«Se lo preferisci, non li farò mai più entrare in casa.»

Dopo qualche minuto, la bambina si scosse leggermente e chiese con voce spessa, roca: «Che cosa vogliono fare a Sparviero?»

«Niente», rispose Tenar. «Non certo del male! Sono venuti per… per onorarlo.»

Ma cominciava a capire che cosa significassero per Ged i tentativi di onorarlo: la negazione della sua perdita, la negazione del rimpianto di ciò che aveva perduto. Quegli uomini volevano costringerlo a recitare una parte che non era più la sua.

Quando Tenar la lasciò, Therru aprì l’armadio e prese la scopa di Ogion. Poi, scrupolosamente, pulì il pavimento dove si erano fermati gli uomini di Havnor e spazzò via le loro impronte, buttando fuori della stanza — fuori della soglia — la polvere delle loro scarpe.

Nel guardare la bambina al lavoro, Tenar prese la decisione.

Si avvicinò allo scaffale dove Ogion teneva i suoi tre grandi libri e cominciò a frugare. Trovò varie penne d’oca e una boccetta d’inchiostro, mezzo asciutta, ma neppure un pezzo di carta o di pergamena. Fece una smorfia, perché le dispiaceva danneggiare una cosa preziosa come un libro, ma piegò e staccò una sottile striscia di carta dall’ultima pagina, bianca, del libro delle Rune. Si sedette al tavolo, intinse la penna e cominciò a scrivere. Né l’inchiostro né le parole erano facili a scorrere. Non aveva più avuto occasione di scrivere da quando si era seduta l’ultima volta a quel tavolo, un quarto di secolo prima, con Ogion che la sorvegliava da dietro le spalle, e le insegnava le Rune hardiche e le Grandi Rune di Potere. Scrisse: va’ alla fattoria querce in valle di mezzo, da rivochiaro. Di’ Goha mandato te per curare orto e pecore.

Per rileggere il messaggio, le occorse quasi lo stesso tempo che aveva impiegato per scriverlo. Nel frattempo, Therru aveva finito di spazzare e la guardava con grande attenzione.