Finché poté, evitò di avvicinarsi al burrone. Il giorno del loro arrivo aveva spiegato a Therru che non doveva mai andare da sola nel prato molto ripido, sotto la casa, o lungo il ciglio del Precipizio, a nord, perché con un occhio solo è difficile farsi un’esatta idea delle distanze. La bambina aveva obbedito. Obbediva sempre. I bambini dimenticano. Ma Therru non dimenticava. Però, poteva avvicinarsi al ciglio senza accorgersene. Probabilmente, comunque, era andata a casa di Muschio. Certo. La sera prima c’era andata da sola, e oggi c’era andata di nuovo. Senza dubbio.
Non c’era. Muschio non l’aveva vista.
«La troverò, cara», le assicurò la strega: ma invece di avviarsi lungo il sentiero della foresta per cercarla, come Tenar aveva sperato, Muschio prese a legarsi i capelli per lanciare un incantesimo di ritrovamento.
Tenar tornò di corsa in casa di Ogion, continuando a chiamare la bambina. E questa volta andò a guardare anche nei prati sotto la casa, con la speranza di vedere la piccola figura della bambina giocare tra i massi. Ma vide solo il mare, scuro e corrugato, al di là del ciglio, e sentì un tuffo al cuore: quasi i sensi le vennero meno.
Si diresse verso la tomba di Ogion e fece qualche passo lungo il sentiero della foresta, chiamando di nuovo la bambina. Quando uscì dagli alberi, vide che il gheppio cacciava nello stesso punto dove Ged si era fermato a osservarlo. Questa volta però si gettò in picchiata, colpì, e si alzò con qualche piccola creatura fra gli artigli. Tornò rapidamente nella foresta. Dà da mangiare ai piccoli, pensò Tenar. Ogni genere di pensieri le passò per la mente, pensieri vividi e precisi, quando giunse dove aveva steso la biancheria ad asciugare. Adesso era asciutta; bisognava portarla in casa prima di sera. Doveva cercare meglio nella zona più vicina alla casa, nella capanna e nell’ovile. Era colpa sua. Era successo perché lei aveva pensato di fare di Therru una tessitrice, chiudendola in casa tutto il giorno, al buio a lavorare, di farla diventare rispettabile. Anche se Ogion le aveva detto: «Insegnale tutto!» Anche se sapeva che, quando non si può correggere un difetto, bisogna trascenderlo. Anche se sapeva che la bambina era affidata a lui e che lei aveva mancato al suo dovere, aveva tradito il suo compito, l’aveva perduta, aveva perso l’unica sua ricchezza.
Dopo avere cercato in tutte le altre costruzioni, entrò nella casa e guardò di nuovo nella nicchia e sotto il letto. Si versò un bicchiere d’acqua, perché aveva la bocca asciutta come sabbia.
Dietro la porta, i tre bastoni — quello di Ogion e gli altri due — si mossero nell’ombra e uno dei bastoni disse: «Qui».
La bambina era seduta in quell’angolo buio: tutta rannicchiata su se stessa, era piccola come un cagnolino, la testa piegata sulla spalla, braccia e gambe schiacciate contro il corpo, l’unico occhio chiuso.
«Uccellino, passerotto, fiammella mia, che cosa è successo? Che cosa ti hanno fatto?»
Tenar cullò tra le braccia il piccolo corpo, ora rigido come pietra. «Perché mi hai fatto prendere uno spavento come questo? Perché ti sei nascosta a me? Oh, ero così spaventata!»
Cominciò a piangere, e le lacrime caddero sulla faccia della bambina.
«Oh, Therru, Therru, non nasconderti a me!»
Per i muscoli serrati corse come un fremito, e lentamente si rilasciarono. Therru si mosse, e all’improvviso si strinse a Tenar e tuffò la faccia nell’incavo tra il seno e la spalla, si strinse disperatamente a lei. Però, la bambina non pianse. Non piangeva mai: forse il fuoco le aveva bruciato tutte le lacrime, non ne aveva più. Emise un lungo gemito.
Therru continuò a cullarla. Lentamente, la stretta disperata si allentò. La bambina appoggiò la testa sul petto di Therru.
«Dimmi», mormorò la donna e la bambina rispose, con un sussurro rauco:
«È venuto qui».
Il primo pensiero di Therru fu per Ged, ma la sua mente, veloce come la paura, scartò quell’idea, pensò a quel che Ged significava per lei — Tenar fece un sorriso torto, per un attimo — e proseguì la caccia. «Chi è venuto qui?»
Nessuna risposta, solo un brivido di paura.
«Un uomo con il berretto di cuoio», disse Tenar, cercando di parlare con calma.
Therru annuì.
«Quello che abbiamo visto per la strada, mentre venivamo qui», aggiunse Tenar.
Nessuna risposta.
«Quei quattro uomini, quelli che mi hanno fatto arrabbiare, ricordi? Era uno di loro.»
Si rammentò che Therru, in quell’occasione, aveva tenuto la testa bassa, per nascondere la parte ustionata, e, come faceva in presenza di estranei, non aveva mai sollevato lo sguardo.
«Lo conosci, Therru?»
«Sì.»
«Da quando… da quando vivevi nell’accampamento vicino al fiume?»
Un cenno d’assenso.
Tenar la strinse tra le braccia.
«È venuto qui?» chiese, e tutta la paura provata fino ad allora si trasformò in collera, una collera che bruciava dentro di lei come una verga di fuoco. Le sfuggì una specie di risata — «Aah!» — e le tornò in mente Kalessin, la risata di Kalessin.
Ma per un semplice essere umano, per una donna, non era così semplice. Doveva trattenere il fuoco. E doveva consolare la bambina.
«Ti ha visto?»
«Mi sono nascosta.»
Dopo qualche momento, Tenar disse, accarezzandole i capelli: «Non riuscirà mai a toccarti, Therru. Credimi, non ti toccherà mai più. Non ti vedrà mai più, ma, se succedesse, io ci sarò e lui dovrà fare i conti con me, allora. Mi capisci bene, cara, tesoro, mia bellissima? Non devi avere paura di lui. Lui si nutre della tua paura, ma noi lo faremo morire di fame, Therru. E alla fine sarà costretto a mangiarsi le mani, e le ossa delle sue mani lo soffocheranno… Non darmi retta, in questo momento sono arrabbiata… Sono rossa? Rossa come una donna di Gont? Sono rossa come un drago?» Cercò di scherzare.
Therru sollevò la testa, la fissò con il suo viso raggrinzito, tremante, divorato dal fuoco, e disse: «Sì, sei un drago rosso».
Per Tenar, l’idea che quell’uomo fosse venuto laggiù, fosse entrato nella casa per guardare ciò che aveva fatto e magari portarlo a compimento, non era un semplice pensiero, ma una sensazione fisica di nausea, un conato di vomito. Ma la nausea si consumò sul fuoco della collera.
Si alzarono e si lavarono; Tenar si accorse che la cosa più importante, per il momento, era la fame. «Ho un buco nello stomaco», disse a Therru, e preparò un abbondante pasto di pane e formaggio, fagioli freddi conditi con olio, erbe aromatiche e fette di cipolla, salame. Therru mangiò molto, e così Tenar.
Mentre sparecchiava la tavola, Tenar disse: «Per il momento, Therru, io non mi staccherò da te, e tu non ti staccherai da me. Va bene? E adesso dovremmo andare tutt’e due a casa di Zia Muschio. Stava preparando un incantesimo per trovarti: adesso non c’è bisogno che continui, però lei non lo sa».
Therru s’immobilizzò. Lanciò un’occhiata alla porta aperta e poi si tirò indietro.
«Dobbiamo portare dentro il bucato. Lo faremo al nostro ritorno. E ti mostrerò anche la tela che ho preso oggi. Per farti un vestito nuovo. Rosso.»
La bambina era ancora esitante. Non osava tirare il fiato.
«Se ci nascondiamo, Therru, gli diamo il suo nutrimento. Ma noi, invece, vogliamo affamarlo. Vieni con me.»
La barriera della porta era tremendamente difficile per Therru: la bambina non riusciva a superarla. Si tirava indietro, nascondeva la faccia, tremava, incespicava; era una crudeltà, ma Tenar doveva costringerla a farlo, e non ebbe pietà. «Vieni!» le disse alla fine, e la bambina la segui.
Mano nella mano, attraversarono i campi fino a raggiungere la casa di Muschio. Una volta o due Therru riuscì ad alzare la testa.