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Adesso, Tenar prendeva con sé la bambina quando si recava al villaggio o quando si allontanava dalla casa.

A Therru, la vicinanza forzata non dispiaceva. Stava accanto a Tenar come avrebbe fatto una bambina molto più piccola, e lavorava con lei o giocava. I suoi giochi consistevano nel ripiglino, nel fare cestini, e nel baloccarsi con un paio di figurine intagliate nell’osso che Tenar aveva trovato in un sacchettino di fili d’erba, tra le cose di Ogion. Una di esse era un animale che poteva essere un cane o una pecora, e l’altra era una figura umana, uomo o donna. Tenar non aveva percepito in essi alcuna magia, e Muschio aveva sentenziato: «Sono solo giocattoli». Per Therru, comunque, costituivano una grande meraviglia. Li muoveva per ore, creando con essi, in silenzio, lunghissime storie; quando giocava, non parlava mai. A volte costruiva casette per l’uomo e l’animale, fortini di pietre, capanne di paglia e fango. Le aveva sempre con sé: in tasca o nella loro borsa di fili d’erba. Intanto, la bambina imparava a filare: teneva la conocchia nella mano bruciata e il fuso nell’altra. Avevano continuato a pettinare con regolarità le capre fin dal giorno del loro arrivo, e adesso avevano un grosso sacco di lana da filare.

«Dovrei cominciare a istruirla», pensava Tenar, preoccupata. «Ogion mi ha detto di insegnarle tutto, e io che cosa le insegno? A cucinare e a filare?» E un’altra parte della sua mente le rispondeva, con la voce di Goha: «E non sono due arti utili e nobili? La saggezza risiede solo nelle parole?»

La cosa, però, continuò a preoccuparla, e un pomeriggio, mentre Therru pettinava la lana per pulirla e renderla più lavorabile, e lei stessa la cardava, all’ombra del pesco, disse: «Therru, forse dovresti cominciare a imparare il vero nome delle cose. C’è una lingua in cui tutte le cose hanno un nome vero, e parole e azioni sono tutt’uno. Parlando quella lingua Segoy ha innalzato le isole dal profondo del mare. È la lingua parlata dai draghi».

La bambina ascoltava in silenzio.

Tenar posò il pettine e prese da terra una piccola pietra. «In quella lingua», disse, «la pietra si chiama tolk.»

Therru la osservò attentamente e ripeté la parola, tolk, ma senza voce, limitandosi a formarla con le labbra, che erano sempre tirate verso la parte destra, a causa della cicatrice.

La pietra continuò a rimanere una semplice pietra sul palmo di Tenar.

Nessuna delle due fece commenti.

«È ancora presto», disse infine Tenar. «Forse ci sono altre cose che devo insegnarti, adesso.» Lasciò cadere a terra la pietra e riprese il pettine e una massa di lana grigia e soffice che Therru aveva preparato per la cardatura. «Forse è meglio aspettare che ti sia dato il tuo nome vero. È ancora presto. Ascolta, questo, invece, è il momento di insegnarti le storie. Posso raccontarti storie dell’Arcipelago e delle terre di Karg. Una volta ti ho narrato una storia che mi era stata raccontata dal mio amico Aihal il Taciturno. Adesso te ne racconterò un’altra che ho imparato dalla mia amica Lodola, quando la raccontava ai nostri figli. La storia di Andaur e Avad. In un tempo lontano come mai, in un paese distante come Selidor, c’era un uomo chiamato Andaur, un boscaiolo, che si recò da solo nella foresta. Un giorno, in mezzo ai boschi, abbatté una grande quercia che, nel cadere, gridò con voce umana…»

Fu un piacevole pomeriggio per tutt’e due.

Ma quella notte, mentre giaceva accanto alla bambina addormentata, Tenar non riuscì a prendere sonno. Era assillata da mille piccole preoccupazioni… Ho chiuso il cancello del recinto? La mano mi fa male perché ho cardato tanta lana, oppure sarà un inizio di artrite? E così via. Poi cominciò ad allarmarsi, perché le parve di sentire dei rumori dall’esterno. Mi sarei dovuta prendere un cane, pensò. Che sciocchezza, non avere un cane. Oggigiorno, una donna e una bambina che vivono da sole dovrebbero avere un cane. Ma questa è la casa di Ogion! Nessuno si sognerebbe di venire qui con intenzioni malvagie. Ma Ogion è morto, l’hanno sepolto tra le radici del suo albero preferito, ai margini del bosco. E non verrà nessuno ad aiutarti. Sparviero se n’è andato, è scappato via. E non è neppure più Sparviero, è un’ombra, inutile a tutti, un morto costretto a vivere. E io non ho forza, non c’è niente di buono in me. Dico la Parola della Creazione ed essa mi muore sulle labbra, è priva di significato. Una pietra. Sono solo una donna, vecchia, debole e stupida. Tutto quel che faccio è sbagliato. Tutto quel che tocco diventa cenere, ombra, pietra. Sono la creatura delle Tenebre, gonfia di Tenebre. Solo il fuoco può purificarmi. Solo il fuoco può divorarmi, consumarmi come…

Si rizzò a sedere, e gridò, nella sua lingua materna: «La maledizione ritorni su chi l’ha scagliata!» Alzò quindi la mano destra e l’abbassò, puntandola in direzione della porta. Poi balzò giù dal letto e corse alla porta, la spalancò e urlò alla foschia della notte: «Sei arrivato troppo tardi, Pioppo. Io sono già stata divorata molti anni fa. Va’ a ripulire col fuoco casa tua!»

Non ci fu risposta, non si udì alcun rumore, tranne un vago, sgradevole puzzo di bruciato, come se avessero dato fuoco a dei capelli o a della lana.

Tenar sbarrò la porta, vi appoggiò il bastone di Ogion, e andò a controllare Therru, per vedere se dormiva ancora. Però, quella notte, non riuscì a prendere sonno.

La mattina seguente, Tenar portò Therru al villaggio: intendeva chiedere a Ventaglio se voleva la lana che lei e la bambina avevano filato. Era soprattutto una scusa per allontanarsi dalla casa e per stare per qualche tempo tra la gente. Il vecchio disse che sarebbe stato lieto di tessere la sua lana, e parlarono per qualche minuto, sotto il grande ventaglio dipinto, mentre l’apprendista li guardava imbronciata e continuava a manovrare la spola. Quando Tenar e Therru lasciarono la casa del tessitore, qualcuno corse a nascondersi dietro la casetta in cui, un tempo, Tenar era andata ad abitare. La donna si sentì pungere il collo come da api o vespe, e udì un ticchettio, come se piovesse… ma in cielo non c’erano nuvole. Poi vide i sassolini che cadevano a terra. Therru si fermò e si guardò attorno, senza capire. I due ragazzini che si erano nascosti dietro la casupola corsero via, senza preoccuparsi eccessivamente di non farsi riconoscere, ridendo e schiamazzando.

«Andiamo via», disse Tenar, seccamente. In breve tempo raggiunsero la casa di Ogion.

Tenar tremava: un tremito che era peggiorato mentre si avvicinava alla casa. Cercò di non farsi vedere da Therru, che era perplessa ma non impaurita, poiché non aveva ancora capito che cosa fosse successo.

Non appena entrata in casa, Tenar capì che c’era stato qualcuno, durante la loro assenza. Le stanze puzzavano di capelli e di carne bruciati. Sul letto, la coperta era in disordine.

Quando cercò di ragionare sul da farsi, capì che le avevano fatto una fattura. La fattura era scattata quando lei era entrata nella casa. Tenar continuava a tremare e aveva la testa confusa, lenta; si sentiva incapace di decidere. Non riusciva a connettere bene. Aveva detto la parola, il nome vero della pietra, e la pietra era stata scagliata contro di lei, contro la sua faccia… la faccia del male… Aveva osato parlare… Non dovevo parlare…

Pensò, nella sua lingua materna: non posso pensare in hardico. Non devo farlo.

Poteva ancora pensare, invece, nella lingua di Karg. Lentamente, però, perché era come dover chiedere alla bambina Arha, che era il nome di Tenar, molto tempo addietro, di uscire dal buio e di pensare per lei. Di aiutarla. Come l’aveva aiutata quella notte, quando aveva rispedito l’incantesimo contro il mago che l’aveva scagliato. Arha non conosceva tante cose che invece erano note a Tenar e a Goha, ma sapeva come lanciare una maledizione, come vivere al buio, e come non fare rumore.