«Volete vivere con noi?» domandò Cyrus Smith.
«Signor Smith, lasciatemi qualche tempo ancora,» rispose Ayrton «lasciatemi solo nell’abitazione del recinto!»
«Come vorrete, Ayrton» rispose Cyrus Smith.
Ayrton stava per ritirarsi, quando l’ingegnere gli rivolse un’ultima domanda:
«Ancora una parola, amico. Se davvero volevate vivere isolato, perché avete gettato in mare il documento che ci ha messi sulle vostre tracce?»
«Un documento?» rispose Ayrton, che pareva non sapere di che cosa gli si parlava.
«Sì, quel documento chiuso in una bottiglia, che abbiamo trovato e che dava la posizione esatta dell’isola di Tabor!»
Ayrton si passò una mano sulla fronte. Poi, dopo aver riflettuto:
«Non ho mai gettato in mare documenti!» rispose.
«Mai?» gridò Pencroff.
«Mai!»
E Ayrton, inchinandosi, indietreggiò verso la porta e uscì.
CAPITOLO XVIII
CONVERSAZIONE «CYRUS SMITH E GEDEON SPILETT» UN’IDEA DELL’INGEGNERE «IL TELEGRAFO ELETTRICO» I FILI «LA PILA» L’AL FABETO «BELLA STAGIONE» PROSPERITÀ DELLA COLONIA «FOTOGRAFIA» UN EFFETTO DI NEVE «DUE ANNI NELL’ISOLA DI LINCOLN»
«POVER’UOMO!» disse Harbert, che, slanciandosi verso la porta, aveva visto Ayrton scivolare lungo la corda dell’ascensore e sparire nell’oscurità.
«Tornerà» disse Cyrus Smith.
«Ah, perbacco, signor Cyrus,» esclamò Pencroff «che cosa vuol dir questo? Come! Non fu Ayrton a gettare la bottiglia in mare? Ma chi è stato, allora?»
Certo, se una domanda doveva essere fatta, era proprio quella!
«È stato lui» rispose Nab; «ma l’infelice era già metà fuori di senno.»
«Sì,» disse Harbert «e non aveva più la coscienza di quel che faceva.»
«Il fatto non può spiegarsi che così, amici,» rispose vivamente Cyrus Smith; «e io comprendo adesso come Ayrton abbia potuto indicare esattamente la situazione dell’isola di Tabor; infatti, gli avvenimenti stessi che avevano preceduto il suo abbandono nell’isola gliela facevano conoscere.»
«Nondimeno,» fece notare Pencroff «s’egli non era ancora un bruto nel momento in cui redigeva il documento e se è sette od otto anni che l’ha gettato in mare, come mai quel foglio non fu alterato dall’umidità?»
«Questo prova» rispose Cyrus Smith «che Ayrton è stato privato dell’intelligenza in un tempo molto più recente di quel che non creda.»
«Bisogna che sia così,» rispose Pencroff «altrimenti la cosa sarebbe inesplicabile!»
«Inesplicabile, davvero» disse l’ingegnere, che sembrava non voler prolungare quella conversazione.
«Ma Ayrton avrà detto la verità?» chiese il marinaio.
«Sì» rispose il giornalista. «La storia che ha narrata è assolutamente vera. Io mi ricordo benissimo che i giornali hanno riferito il tentativo fatto da lord Glenarvan e il risultato da lui ottenuto.»
«Ayrton ha detto la verità,» aggiunse Cyrus Smith «non dubitatene, Pencroff, poiché essa era abbastanza crudele per lui. Si dice il vero quando ci si accusa così!»
Il giorno seguente — 21 dicembre — i coloni discesero alla spiaggia ed essendosi portati sull’altipiano, non vi trovarono più Ayrton. Ayrton aveva raggiunto, durante la notte, la sua casa del recinto, e i coloni reputarono conveniente non importunarlo con la loro presenza. Il tempo indubbiamente avrebbe fatto ciò che non avevano potuto gli incoraggiamenti.
Harbert, Pencroff e Nab ripresero allora le loro consuete occupazioni. Quel giorno appunto gli stessi lavori riunirono Cyrus Smith e il giornalista nel laboratorio dei Camini.
«Sapete, caro Cyrus,» disse Gedeon Spilett «che la spiegazione che ieri avete data relativamente a quella bottiglia non m’ha soddisfatto per niente? Come ammettere che quel disgraziato abbia potuto scrivere il documento e gettare la bottiglia in mare, senza averne serbato il ricordo?»
«Perché non è stato lui che l’ha gettata, caro Spilett.»
«Allora, voi credete ancora…»
«Non credo niente, non so niente!» rispose Cyrus Smith, interrompendo il giornalista. «Mi accontento di annoverare quest’incidente fra quelli che non ho potuto spiegare finora!»
«Davvero, Cyrus,» disse Gedeon Spilett «queste cose sono incredibili! Il vostro salvataggio, la cassa arenata sulla sabbia, le avventure di Top e da ultimo quella bottiglia… Non avremo, dunque, mai la chiave di questi enigmi?»
«Sì!» rispose vivacemente l’ingegnere «si, quand’anche dovessi frugare quest’isola fin nelle sue viscere!»
«Il caso ci darà forse la chiave del mistero!»
«Il caso! Spilett! Io non credo al caso più di quanto creda ai misteri di questo mondo. C’è una causa in tutto quello che succede d’inesplicabile qui, e questa causa io la scoprirò. Ma, intanto, osserviamo e lavoriamo.»
Giunse il mese di gennaio. Incominciava l’anno 1867. I lavori estivi furono condotti con assiduità. Nei giorni seguenti, Harbert e Gedeon Spilett, essendo andati dalle parti del recinto, poterono constatare che Ayrton aveva preso possesso della dimora preparata per lui. Si occupava del numeroso gregge affidato alle sue cure, risparmiando ai suoi compagni la fatica di andare ogni due o tre giorni a visitare il recinto. Tuttavia, per non lasciare Ayrton troppo a lungo isolato, i coloni lo visitavano assai spesso.
Non era inutile (tutt’altro!), dati certi sospetti che l’ingegnere e Gedeon Spilett condividevano, che quella parte dell’isola fosse soggetta a una certa sorveglianza; e Ayrton, se qualche incidente fosse intervenuto, non avrebbe mancato di informarne gli abitanti di GraniteHouse.
Però, poteva darsi che l’incidente fosse subitaneo ed esigesse d’essere rapidamente conosciuto dall’ingegnere. Anche all’infuori di ogni fatto relativo al mistero dell’isola di Lincoln, molti altri se ne potevano verificare, che avrebbero richiesto un pronto intervento dei coloni, come l’apparizione d’una nave in vista della costa occidentale, un naufragio sugli atterraggi dell’ovest, il possibile arrivo di pirati, ecc.
Così Cyrus Smith risolse di mettere il recinto in comunicazione immediata con GraniteHouse.
Il 10 gennaio partecipò il suo progetto ai compagni.
«Ah, diamine! E come farete, signor Cyrus?» domandò Pencroff. «Pensereste, per caso, d’installare un telegrafo?»
«Precisamente» rispose l’ingegnere.
«Elettrico?» esclamò Harbert.
«Elettrico» rispose Cyrus Smith. «Abbiamo tutti gli elementi necessari per confezionare una pila. Più difficile sarà fare i fili di ferro, ma per mezzo di una filiera credo che ne verremo a capo.»
«Dopo questo,» replicò il marinaio «non dispero più di viaggiare un giorno in ferrovia!»
I coloni si misero all’opera, cominciando dalla parte più difficile, cioè dalla fabbricazione dei fili, giacché, se non fossero riusciti in questa operazione, sarebbe stato inutile fabbricare la pila e gli altri accessori.
Il ferro dell’isola di Lincoln, com’è noto, era di qualità ottima e quindi molto adatto a lasciarsi distendere. Cyrus Smith cominciò con il fabbricare una filiera, o trafila, vale a dire una piastra d’acciaio, che fu forata a buchi conici di diverse grandezze; i quali dovevano successivamente ridurre il filo al grado di sottigliezza voluta. Questa lastra d’acciaio, dopo essere stata temperata alla massima durezza, venne fissata in maniera irremovibile su di un telaio solidamente piantato nel suolo, a pochi piedi soltanto dalla grande cascata, di cui l’ingegnere stava per utilizzare ancora la forza motrice.
Infatti, là era la gualchiera, che allora non funzionava, ma il cui albero, mosso con forza poderosa, poteva servire a tirare il filo, avvolgendolo intorno a sé.
L’operazione fu delicata e richiese molte cure. Il ferro, preliminarmente preparato in aste lunghe e sottili, le cui estremità erano state assottigliate con la lima, venne introdotto nel foro di maggior calibro della trafila, stirato dall’albero della gualchiera e avvolto per una lunghezza dai venticinque ai trenta piedi, poi svolto e introdotto successivamente nei fori di minore diametro. Finalmente, l’ingegnere ottenne dei fili lunghi da quaranta a cinquanta piedi, ch’era facile collegare e tendere sulla distanza di cinque miglia che separava il recinto da GraniteHouse.