Anche l’ingegnere prese parte a diverse ricognizioni nei paraggi sconosciuti dell’isola, ch’egli osservava con minuziosa attenzione. Ben altre tracce che quelle degli animali egli cercava nei punti più folti di quei vasti boschi, ma mai
nulla di sospetto apparve ai suoi occhi. Né Top né Jup, che l’accompagnavano, lasciavano supporre, con il loro atteggiamento, che ci fosse qualcosa di straordinario; eppure più d’una volta il cane aveva ancora abbaiato alla bocca del pozzo, che l’ingegnere aveva invano esplorato.
In quel tempo Gedeon Spilett, aiutato da Harbert, prese parecchie vedute delle parti più pittoresche dell’isola, servendosi dell’apparecchio fotografico ch’era stato trovato nella cassa e che fino allora non avevano mai adoperato.
Questo apparecchio, munito d’un potente obiettivo, era completissimo. Nulla vi mancava; v’erano tutte le sostanze necessarie alla riproduzione fotografica: collodio per preparare la lastra di vetro, nitrato d’argento per renderla sensibile, iposolfato di soda per fissare l’immagine ottenuta, cloruro d’ammonio per bagnare la carta destinata a dare la prova positiva, acetato di soda e cloruro d’oro per impregnare quest’ultima. C’erano persino le carte già clorurate, e prima di posarle sulle prove negative bastava immergerle per alcuni minuti nel nitrato d’argento allungato con acqua.
Il giornalista e il suo aiutante divennero in breve abili operatori e ottennero vedute di paesaggi assai belle, come l’insieme dell’isola preso dall’altipiano di Bellavista, con il monte Franklin all’orizzonte, la foce del Mercy, così pittorescamente incorniciata nelle sue alte rocce, la radura e il recinto addossato ai primi gioghi della montagna, tutta la curiosa conformazione del Capo Artiglio, della Punta del Relitto, ecc.
I fotografi non dimenticarono di fare il ritratto a tutti gli abitanti dell’isola, nessuno eccettuato.
«L’isola si sta popolando» diceva Pencroff.
E il marinaio era felicissimo di vedere la sua immagine, fedelmente riprodotta, ornare i muri di GraniteHouse e si fermava volentieri davanti a quell’esposizione, come avrebbe fatto davanti alle più ricche vetrine di Broadway.
Ma, bisogna dirlo, il ritratto meglio riuscito fu incontestabilmente quello di mastro Jup. Mastro Jup aveva posato con una serietà impossibile a descriversi e la sua immagine era parlante!
«Si direbbe che sta per fare una smorfia!» esclamò Pencroff.
Se mastro Jup non fosse stato contento, sarebbe proprio stato il caso di dire che era molto difficile da accontentare; ma era soddisfatto, e contemplava la sua immagine con un’aria sentimentale, che rivelava una leggera dose di fatuità.
I grandi calori estivi finirono con il mese di marzo. Il tempo fu talvolta piovoso, ma l’atmosfera era ancora calda. Il mese di marzo, corrispondente al settembre delle latitudini boreali, non fu così bello come si sarebbe potuto sperare. Forse annunciava un inverno precoce e rigoroso.
I coloni, una mattina, il 21, furono persino sul punto di credere che la prima neve avesse fatto la sua apparizione. Infatti, Harbert, essendosi affacciato di buon’ora a una finestra di GraniteHouse, gridò:
«To’! L’isolotto è coperto di neve!»
«Della neve in questa stagione!» disse il giornalista, che aveva raggiunto il ragazzo.
Gli altri compagni si avvicinarono subito e non poterono costatare che una cosa, cioè che non solo l’isolotto, ma tutto il greto ai piedi di GraniteHouse era coperto di uno strato bianco, uniformemente sparso al suolo.
«È proprio neve!» disse Pencroff.
«O le assomiglia molto!» osservò Nab.
«Ma il termometro segna cinquantotto gradi (14 gradi centigradi sopra zero)!» fece notare Gedeon Spilett.
Cyrus Smith guardava la distesa bianca senza pronunciarsi, poiché non sapeva davvero come spiegare il fenomeno, in quella stagione dell’anno e con quella temperatura.
«Per mille diavoli!» esclamò Pencroff «le nostre piantagioni si geleranno!»
E il marinaio si disponeva a scendere, quando fu preceduto dall’agile Jup, che si lasciò scivolare fino a terra.
Ma la scimmia non aveva ancora toccato terra, che l’enorme strato di neve si sollevava e si sparpagliava nell’aria in così infinita quantità di fiocchi, che la luce del sole ne fu velata per alcuni minuti.
«Sono uccelli!» gridò Harbert.
Erano, infatti, sciami d’uccelli marini, dalle piume d’un candore abbagliante. S’erano abbattuti a centinaia di migliaia sull’isolotto e sulla costa e sparvero in lontananza, lasciando i coloni sbalorditi, come avessero assistito a un mutamento a vista, che avesse fatto succedere l’estate all’inverno in uno scenario magico. Disgraziatamente, il cambiamento era stato così subitaneo, che né il cronista, né il giovanetto poterono abbattere uno solo di quegli uccelli, di cui non riuscirono quindi a precisare la specie.
Pochi giorni dopo, il 26 marzo, si compivano due anni da che i naufraghi dell’aria erano stati gettati sull’isola di Lincoln!
CAPITOLO XIX
RICORDI DELLA PATRIA «LE FUTURE POSSIBILITÀ» PROGETTO DI ESPLORAZIONE DELLE COSTE DELL’ISOLA «PARTENZA IL 16 APRILE» LA PENISOLA SERPENTINE VISTA DAL MARE «I BASALTI DELLA COSTA OCCIDENTALE» CATTIVO TEMPO «VIENE LA NOTTE» NUOVO INCIDENTE
GIÀ DUE ANNI! E da due anni i coloni non avevano più avuto alcuna comunicazione con i loro simili! Erano senza notizie del mondo civile, perduti su quell’isola, come se fossero stati su qualche infimo asteroide del mondo solare!
Che cosa accadeva intanto nel loro paese? L’immagine della patria era sempre presente ai loro occhi, quella patria dilaniata dalla guerra civile, quando essi l’avevano lasciata e che la ribellione del Sud insanguinava forse ancora! Questo era per loro un grande dolore e spesso parlavano di tali cose, senza tuttavia mai dubitare che la causa del Nord avesse a trionfare, per l’onore della Confederazione Americana.
Durante quei due anni non un bastimento era passato in vista dell’isola o, per lo meno, non una vela era stata scorta. Era evidente che l’isola di Lincoln si trovava fuori dalle rotte ordinariamente seguite, e inoltre ch’era sconosciuta — come, del resto, provavano anche le carte — giacché, pur non essendovi un porto, le sue acque dolci avrebbero dovuto attirare i bastimenti desiderosi di rinnovare la loro provvista d’acqua. Ma il mare che l’attorniava era sempre
deserto, fin dove si stendeva lo sguardo, e i coloni non dovevano contare che su se stessi per tornare in patria.
Nondimeno, una probabilità di salvezza esisteva, e quella probabilità fu appunto discussa dai coloni un giorno della prima settimana d’aprile, mentre erano riuniti nella sala di GraniteHouse.
Avevano per l’appunto parlato dell’America e del loro Paese natale, che avevano così poca speranza di rivedere.
«Decisamente, non avremo che un mezzo,» disse Gedeon Spilett «un solo mezzo per lasciare l’isola di Lincoln, e sarà di costruire un bastimento abbastanza grande da poter tenere il mare per alcune centinaia di miglia. Mi sembra che, quando s’è fatta una barca, si possa fare anche una nave.»
«E che si può anche andare alle Paumotu» soggiunse Harbert «quando si è andati all’isola di Tabor!»
«Non dico di no» rispose Pencroff, che aveva sempre voce in capitolo nelle questioni marittime; «non dico di no, benché non sia proprio la stessa cosa andare vicino o andar lontano! Durante il viaggio all’isola di Tabor se la nostra imbarcazione fosse stata minacciata da qualche pericolosa burrasca, sapevamo che il porto non era lontano, né da una parte né dall’altra; ma milleduecento miglia da percorrere, sono un bel tratto di strada, e la terra più vicina è almeno a questa distanza!»