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«Che cosa bisogna fare?» domandò il ragazzo.

«Aspettare» rispose Cyrus Smith.

E per non breve spazio, di tempo i coloni rimasero silenziosi, in preda a tutti i pensieri, a tutte le emozioni, a tutti i timori, a tutte le speranze, che poteva far nascere in loro quell’avvenimento, il più grave che fosse accaduto dal loro arrivo all’isola di Lincoln.

I coloni, certo, non erano nella situazione di naufraghi abbandonati su di uno sterile isolotto, che disputano la loro miserabile esistenza a una natura maligna e sono incessantemente divorati dal bisogno di rivedere le terre abitate. Pencroff e Nab soprattutto, che si sentivano felici e ricchi a un tempo, non avrebbero lasciato l’isola senza rammarico. Del resto, erano fatti apposta per quella vita nuova, in quella terra che la loro intelligenza aveva, per così dire, incivilito! Ma, insomma, quella nave era, in ogni caso, apportatrice di notizie del continente; era, forse, un lembo di patria che veniva loro incontro! Essa portava degli esseri simili a loro, e si comprende che i loro cuori avessero vivamente trasalito alla sua vista.

Di tanto in tanto Pencroff riprendeva il cannocchiale e si metteva alla finestra. Di là, esaminava con estrema attenzione il bastimento, che era a una distanza di venti miglia a est. I coloni non avevano, dunque, ancora alcun mezzo per segnalare la loro presenza. Una bandiera non sarebbe stata scorta; una detonazione non sarebbe stata udita; un fuoco non sarebbe stato visto.

Tuttavia, era certo che l’isola, dominata dal monte Franklin, non poteva essere sfuggita alle vedette della nave. Ma perché la nave stessa avrebbe atterrato là? Non era un semplice caso, che la spingeva in quella parte del Pacifico, ove le carte non menzionavano alcuna terra, salvo l’isolotto di Tabor, ch’era esso pure fuori delle rotte ordinariamente seguite dalle navi di altura degli arcipelaghi polinesiani, della Nuova Zelanda e della costa americana?

A questa domanda, che ciascuno faceva a se stesso, Harbert diede subito una risposta.

«Che sia il Duncan!» esclamò.

Com’è noto, il Duncan era lo yacht di lord Glenarvan, che aveva abbandonato Ayrton sull’isolotto e che doveva un giorno tornare a riprenderlo. Ora, l’isolotto non si trovava a tale distanza dall’isola di Lincoln, che un bastimento, facendo rotta per quello, non potesse passare in vista di questa. Centocinquanta miglia soltanto li separavano in longitudine e settantacinque miglia in latitudine.

«Bisogna avvertire Ayrton,» disse Gedeon Spilett «e mandarlo a chiamare immediatamente. Egli solo può dirci se si tratta del Duncan.»

Tutti furono d’accordo e il giornalista, andando all’apparecchio telegrafico, che metteva in comunicazione il recinto con GraniteHouse, lanciò questo telegramma:

«Venite immediatamente».

Pochi istanti dopo il campanello suonava.

«Vengo» rispondeva Ayrton.

I coloni continuarono poi a osservare la nave.

«Se è il Duncan,» disse Harbert «Ayrton lo riconoscerà facilmente, poiché vi è stato a bordo per qualche tempo.»

«E riconoscendolo» soggiunse Pencroff «ne proverà una straordinaria emozione!»

«Sì» rispose Cyrus Smith. «Ma ora Ayrton è degno di risalire a bordo del Duncan; voglia il Cielo che sia davvero lo yacht di lord Glenarvan, perché ogni altra nave mi sembrerebbe sospetta! Questi mari sono mal frequentati e temo sempre per la nostra isola la visita dei pirati malesi.»

«Ma noi la difenderemo!» esclamò Harbert.

«Indubbiamente, ragazzo mio» rispose l’ingegnere sorridendo; «ma è meglio non aver bisogno di difenderla.»

«Una semplice osservazione» disse Gedeon Spilett. «L’isola di Lincoln non è conosciuta dai naviganti, perché non è indicata nemmeno sulle carte più recenti. Non credete, Cyrus, che sia questo un motivo perché un bastimento, trovandosi inopinatamente in vista di una terra nuova, cerchi di visitarla, anziché allontanarsene?»

«Certo» rispose Pencroff.

«Anch’io lo penso» soggiunse l’ingegnere. «Si può, anzi, affermare ch’è dovere di ogni capitano segnalare e per conseguenza prender conoscenza di ogni terra o isola non ancora catalogata; questo è appunto il caso dell’isola di Lincoln.»

«Ebbene,» disse allora Pencroff «ammettiamo che quel bastimento prenda terra, che dia fondo, a qualche gomena dalla nostra isola; che cosa faremo?»

Il quesito, posto così bruscamente, rimase dapprima senza risposta. Ma Cyrus Smith, dopo aver riflettuto, rispose con il tono calmo che gli era abituale:

«Ecco quello che faremo, amici miei, quello che dovremo fare: prenderemo contatto col bastimento, ci imbarcheremo su di esso e lasceremo la nostra isola, dopo averne preso possesso nel nome degli Stati dell’Unione. Poi vi torneremo con tutti coloro che vorranno seguirci, per colonizzarla definitivamente e dotare la Repubblica Americana d’uno scalo utile in questa parte dell’Oceano Pacifico!»

«Evviva!» gridò Pencroff «e non sarà un piccolo regalo, che faremo al nostro Paese! La colonizzazione è già quasi compiuta, i nomi sono dati a tutte le parti dell’isola, c’è un porto naturale, un punto di acquata, vi sono strade, una linea telegrafica, un cantiere, un’officina, e non rimarrà altro da fare che iscrivere il nome dell’isola di Lincoln sulle carte!»

«Ma se ce la prendono durante la nostra assenza?» osservò Gedeon Spilett.

«Per mille diavoli!» esclamò il marinaio «piuttosto resterei io solo a custodirla, e, quant’è vero che sono Pencroff, non me la ruberebbero certo come si ruba un orologio di tasca a un balordo; state pure tranquilli!»

Per un’ora ancora fu impossibile dire con sicurezza se il bastimento segnalato facesse o non facesse rotta verso l’isola di Lincoln. S’era avvicinato, tuttavia, ma a quale velocità navigava? Pencroff non riuscì a stabilirlo. Nondimeno, siccome il vento soffiava da nordest era verosimile che navigasse con le mure a dritta. D’altronde il vento era favorevole per spingerlo verso gli approdi dell’isola e, con quella calma, non poteva. temere di avvicinarsi, benché i fondali non fossero riportati sulla carta.

Verso le quattro, un’ora dopo la chiamata, Ayrton arrivò a GraniteHouse. Entrò nel salone, dicendo:

«Ai vostri ordini, signori.»

Cyrus Smith gli porse la mano, come faceva di solito, e conducendolo presso la finestra:

«Ayrton,» gli disse «vi abbiamo pregato di venire per un motivo grave. Un bastimento è in vista dell’isola.»

Ayrton, a tutta prima, impallidì leggermente e il suo sguardo si turbò per un istante. Poi, sporgendosi dalla finestra, percorse l’orizzonte con lo sguardo, ma non vide nulla.

«Prendete questo cannocchiale,» disse Gedeon Spilett «e guardate bene, Ayrton; perché potrebbe darsi che quella nave fosse il Duncan, venuto in questi mari per rimpatriarvi.»

«Il Duncan!» mormorò Ayrton. «Già!»

Quest’ultima parola sfuggì quasi involontariamente dalle labbra di Ayrton, che chinò la testa fra le mani.

Dodici anni di abbandono su di un isolotto deserto non gli parevano, dunque, un’espiazione sufficiente? Il colpevole punito non si sentiva, dunque, ancora perdonato, di fronte a se stesso, e di fronte agli altri?

«No,» disse «no! Non può essere il Duncan.»

«Guardate, Ayrton,» disse allora l’ingegnere «perché è necessario che noi sappiamo fin d’ora a che partito appigliarci.»

Ayrton prese il cannocchiale e lo puntò nella direzione indicata. Per alcuni minuti osservò l’orizzonte senza muoversi, senza pronunciare una parola. Poi:

«Infatti, è una nave,» disse «ma non credo che sia il Duncan.»

«Perché mai non dovrebbe essere il Duncan?» domandò allora Gedeon Spilett.

«Perché il Duncan è uno yacht a vapore, mentre non scorgo nessuna traccia di fumo, né sopra, né intorno a quel bastimento.»