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C’era, nel rinvenimento di quel pezzo di stoffa, una speranza in cui i compagni di Ayrton potevano confidare. Infatti, sulle prime avevano creduto che, sorpreso nel recinto, Ayrton fosse caduto sotto qualche palla, com’era caduto Harbert. Ma, se i predoni non l’avevano ucciso subito, e l’avevano invece condotto vivo in qualche altra parte dell’isola, non era lecito ammettere che fosse ancora loro prigioniero? Poteva darsi anche che qualcuno di essi avesse riconosciuto in Ayrton un vecchio compagno d’Australia, il Ben Jovce, il capo dei deportati evasi. E chi sa che non avessero concepito l’inverosimile speranza

di ricondurlo nelle loro file! Sarebbe stato molto utile per loro farne un traditore!…

Quell’incidente fu, dunque, favorevolmente interpretato al recinto, e il ritrovamento di Ayrton non parve più impossibile. V’era, inoltre, la certezza che, dal canto suo, Ayrton — se era prigioniero — avrebbe fatto di tutto per sfuggire dalle mani dei banditi, e allora sarebbe stato un potente aiuto per i coloni!

«In ogni caso,» osservò Gedeon Spilett «se, per fortuna, Ayrton riesce a salvarsi, andrà direttamente a GraniteHouse, perché non conosce il tentativo d’assassinio di cui Harbert è stato vittima e, di conseguenza, non può supporre che noi siamo imprigionati nel recinto.»

«Ah, vorrei ch’egli fosse già a GraniteHouse!» esclamò Pencroff «e che vi fossimo noi pure. Poiché, insomma, se quei furfanti nulla possono tentare contro la nostra dimora, possono però saccheggiare l’altipiano, le nostre piantagioni, il nostro pollaio!»

Pencroff era, come un vero e proprio contadino, attaccato con il cuore ai suoi raccolti. Ma bisogna dire che Harbert era il più impaziente di tutti di tornare a GraniteHouse, perché sapeva quanto la presenza dei coloni vi fosse necessaria. Ed era lui che li tratteneva al recinto! Così la sua mente era occupata da quest’unica idea: lasciare il recinto, lasciarlo a ogni costo! Egli credeva di poter sopportare il trasferimento fino a GraniteHouse! Assicurava che le forze gli sarebbero ritornate più presto nella sua camera, con l’aria e la vista del mare!

Parecchie volte sollecitò Gedeon Spilett, ma questi, temendo con ragione che le ferite di Harbert, mal cicatrizzate, si riaprissero per via, non dava l’ordine di partire.

Ma nel frattempo si verificò un incidente, che indusse Cyrus Smith e i suoi due amici a cedere al desiderio del giovinetto, e Dio sa quanti dolori e quanti rimorsi causò poi loro quella determinazione!

Era il 29 novembre. Alle sette di mattina i tre coloni conversavano nella camera di Harbert, quando udirono Top abbaiare vivacemente.

Cyrus Smith, Pencroff e Gedeon Spilett afferrarono i fucili, sempre pronti a far fuoco, e uscirono dalla casa.

Top, ai piedi dello steccato, saltava, abbaiava, ma di contentezza, non di collera.

«Viene qualcuno!»

«Sì!»

«Non è un nemico!»

«Nab, forse?»

«O Ayrton?»

Queste parole erano appena state scambiate fra l’ingegnere e i suoi compagni, quando un corpo, scavalcando la palizzata, ricadeva nel recinto.

Era Jup, mastro Jup in persona, al quale Top fece un’accoglienza da vero amico!

«Jup!» esclamò Pencroff.

«È Nab che ce lo manda» disse il cronista.

«Allora,» disse l’ingegnere «deve avere qualche biglietto. Pencroff si precipitò sull’orango. Evidentemente, se Nab avesse avuto»

qualche cosa d’importante da annunciare al suo padrone, non avrebbe potuto impiegare un messaggero più sicuro e più rapido, che poteva passare laddove né ai coloni, né allo stesso Top sarebbe stato possibile.

Cyrus Smith non si era ingannato. Al collo di Jup era appeso un sacchettino, in cui si trovava un biglietto scritto di pugno da Nab.

Si pensi alla disperazione di Cyrus Smith e dei suoi compagni quando lessero queste parole:

«Venerdì, ore sei del mattino. Altipiano invaso dai deportati! NAB.» Si guardarono senza pronunciar parola, poi rientrarono in casa. Che cosa dovevano fare? I deportati sull’altipiano di Bellavista volevano dire il disastro, la devastazione, la rovina!

Harbert, vedendo rientrare l’ingegnere, il giornalista e Pencroff, comprese che la situazione s’era aggravata e, quando poi scorse Jup, non dubitò più che una disgrazia minacciasse GraniteHouse.

«Signor Cyrus,» disse «voglio partire. Posso sopportare il viaggio! Voglio partire!»

Gedeon Spilett s’avvicinò ad Harbert. Poi, dopo averlo guardato:

«Partiamo, dunque!» disse.

In breve si decise se Harbert sarebbe stato trasportato su di una barella o nel carretto che Ayrton aveva condotto al recinto. La barella avrebbe avuto movimenti più dolci per il ferito, ma rendeva necessari due portatori, e quindi due fucili sarebbero mancati alla difesa, in caso di un attacco per la strada.

Non si poteva, invece, adoperare il carro, lasciando così tutte le braccia disponibili? Era, dunque, impossibile collocarvi i materassi su cui riposava Harbert e avanzare con tanta precauzione, che ogni scossa gli fosse evitata? Si poteva.

Fu condotto il carro. Pencroff vi attaccò l’onagro. Cyrus Smith e il giornalista sollevarono i materassi di Harbert e li posarono sul fondo del carro fra le due sponde.

Il tempo era bello. Vivi raggi di sole s’insinuavano attraverso gli alberi.

«Le armi sono pronte?» domandò Cyrus Smith.

Erano pronte. L’ingegnere e Pencroff, armati ciascuno di un fucile a due colpi e Gedeon Spilett, con la sua carabina, non avevano che da partire.

«Sei sistemato bene, Harbert?» domandò l’ingegnere.

«Ah, signor Cyrus,» rispose il ragazzo «state tranquillo, non morirò per via!»

Il povero ragazzo parlava così, ma si vedeva che faceva appello a tutta la sua energia e che solo per un supremo sforzo di volontà teneva deste le sue forze prossime a estinguersi.

L’ingegnere si sentì stringere il cuore dolorosamente. Esitò ancora a dare il segnale della partenza. Ma sarebbe stato come mettere Harbert alla disperazione, forse anche ucciderlo.

«In cammino!» disse Cyrus Smith.

La porta del recinto venne aperta. Jup e Top, che sapevano tacere quand’era necessario, si slanciarono avanti. Il carretto uscì, la porta fu richiusa e l’onagro, guidato da Pencroff, avanzò con passo lento.

Sarebbe stato certo meglio prendere un’altra strada, non quella che andava direttamente dal recinto a GraniteHouse, ma il carro avrebbe incontrato grandi difficoltà a muoversi in mezzo ai boschi. Bisognò, dunque, seguire questa via, benché certamente nota ai deportati.

Cyrus Smith e Gedeon Spilett camminavano ai due lati del carro, pronti a rispondere a ogni attacco. Ma non era probabile che i deportati avessero già abbandonato l’altipiano di Bellavista. Il biglietto di Nab evidentemente era stato scritto e mandato appena i deportati vi si erano mostrati. Ora, questo biglietto era stato scritto alle sei del mattino e l’agile scimmia, abituata a venire spesso al recinto, aveva impiegato appena tre quarti d’ora a percorrere le cinque miglia che lo separavano da GraniteHouse. La strada doveva essere sicura in quel momento e, se fosse stato necessario sparare, sarebbe stato nelle vicinanze di GraniteHouse.

Tuttavia, i coloni stavano in guardia. Top e Jup, — questo armato del suo bastone — ora precedendo i coloni, ora perlustrando il bosco ai lati della strada, non segnalavano alcun pericolo.

Il carro avanzava lentamente, guidato da Pencroff. Avevano lasciato il recinto alle sette e mezzo. Un’ora dopo, quattro miglia su cinque erano state superate, senza alcun incidente.

La strada era deserta come tutta la parte del bosco dello Jacamar, che si stendeva fra il Mercy e il lago. Nessun allarme. I cedui parevano deserti come nel giorno in cui i coloni erano sbarcati sull’isola.

I coloni si avvicinavano all’altipiano. Ancora un miglio e sarebbero stati in vista del ponticello del Creek Glicerina. Cyrus Smith era persuaso che il ponticello sarebbe stato al suo posto, sia che i deportati fossero entrati da quella parte, sia che, dopo aver passato uno dei corsi d’acqua che chiudevano la cinta, avessero preso la precauzione di abbassarlo, per aprirsi la via a un’eventuale ritirata.