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Un raggio s’insinuò sino alla tavola vicina al letto.

Improvvisamente Pencroff, cacciando un grido, mostrò un oggetto posto sulla tavola.

Era una scatoletta oblunga, che portava sul coperchio queste parole:

Solfato di chinino.

CAPITOLO XI

INESPLICABILE MISTERO «LA CONVALESCENZA DI HARBERT» LE PARTI DELL’ISOLA DA ESPLORARE «PREPARATIVI DI PARTENZA» PRIMA GIORNATA «LA NOTTE» SECONDA GIORNATA «I KAURI» LA COPPIA DI CASUARI «IMPRONTE DI PASSI NELLA FORESTA» ARRIVO AL PROMONTORIO DEL RETTILE

GEDEON SPILETT prese la scatola e l’aprì. Conteneva circa duecento granelli d’una polvere bianca, di cui portò alle labbra qualche particella. Il sapore molto amaro di quella sostanza non poteva lasciar dubbi. Era proprio il prezioso alcaloide della china, l’antiperniciosa per eccellenza.

Bisognava somministrare senza indugio quella polvere ad Harbert. Sul come essa si trovasse là, si sarebbe discusso più tardi.

«Un po’ di caffè» chiese Gedeon Spilett.

Pochi istanti dopo, Nab portava una tazza della tiepida bevanda. Gedeon Spilett vi gettò circa diciotto grani (Nota: 10 grammi. Fine nota) di chinino e fece bere questa mistura ad Harbert.

Si era ancora in tempo, giacché il terzo accesso della febbre perniciosa non s’era manifestato!

E, sia concesso di aggiungere, non doveva più ritornare!

D’altra parte, bisogna pur dirlo, tutti avevano ripreso speranza. L’influenza misteriosa s’era nuovamente manifestata, in un momento supremo, quando si disperava di essa!…

In capo ad alcune ore, Harbert riposava più tranquillamente. I coloni poterono allora parlare di quell’ultimo fatto. L’intervento dello sconosciuto era più evidente che mai. Ma come aveva egli potuto penetrare, durante la notte, in GraniteHouse? Era assolutamente inesplicabile e, in verità, il modo di procedere del «genio dell’isola» era non meno strano del genio medesimo.

Nel corso di quella giornata, e di tre ore in tre ore circa, il solfato di chinino fu somministrato ad Harbert. Harbert, sin dall’indomani cominciò a risentire un certo miglioramento. Tuttavia, egli non era ancora guarito, e le febbri intermittenti sono soggette a frequenti e pericolose ricadute; ma le cure non gli mancarono. Eppoi, lo specifico era là e non lungi, indubbiamente, era colui che l’aveva portato. Insomma, un’immensa speranza rinacque in tutti i cuori.

Questa speranza non fu delusa. Dieci giorni dopo, il 20 dicembre, Harbert entrava in convalescenza. Era debole ancora e gli era stata imposta una severa dieta, ma non gli era più tornato nessun accesso di febbre. Eppoi, il docile ragazzo si sottometteva così volentieri a tutte le prescrizioni! Aveva tanta voglia di guarire!

Pencroff era come un uomo tratto dal fondo di un abisso. Aveva delle deliranti crisi di gioia. Superato lo sgomento del terzo accesso, egli aveva stretto fra le sue braccia il giornalista sino a soffocarlo. Da allora lo chiamò sempre «dottor Spilett».

Rimaneva da scoprire il vero dottore.

«Lo scopriremo!» ripeteva il marinaio.

E, certo, quell’uomo, chiunque fosse, doveva aspettarsi qualche rude abbraccio del buon Pencroff!

Il mese di dicembre terminò e con esso anche l’anno 1867, durante il quale i coloni dell’isola di Lincoln erano stati così duramente provati. L’anno 1868 incominciò con un tempo splendido, un caldo intenso, una temperatura tropicale che il venticello marino fortunatamente mitigava. Harbert rinasceva e dal suo letto, presso una delle finestre di GraniteHouse, aspirava quell’aria salubre, carica d’emanazioni saline, che gli ridonava la salute. Incominciava a mangiare, e Dio sa che buoni piattini, leggeri e saporiti, gli preparava Nab!

«C’è da aver voglia d’essere stato morente!» diceva Pencroff. Durante tutto quel periodo di tempo, i deportati non si erano mai mostrati

nei dintorni di GraniteHouse. Di Ayrton nessuna notizia, e se l’ingegnere e Harbert conservavano ancora qualche speranza di ritrovarlo, gli altri erano convinti che il disgraziato fosse morto. Tuttavia, era impossibile perdurare in quell’incertezza e appena il giovinetto si fosse rimesso in forze, l’ideata importante spedizione sarebbe stata subito intrapresa. Ma bisognava forse aspettare un mese, perché tutte le forze della colonia non sarebbero state di troppo per aver ragione dei deportati.

Del resto, Harbert andava di bene in meglio. La congestione del fegato era sparita e le ferite potevano considerarsi come definitivamente cicatrizzate.

In quel mese di gennaio, lavori importanti furono fatti sull’altipiano di Bellavista, ma non servirono che a salvare quel che poteva essere salvato dei raccolti devastati, sia di grano, sia d’ortaggi. Le sementi e le pianticelle furono raccolte, perché potessero produrre una nuova messe per la prossima stagione. Cyrus Smith preferì invece aspettare a ricostruire i fabbricati del cortile, il mulino e le scuderie. Mentre lui e i suoi compagni sarebbero andati all’inseguimento dei deportati, questi avrebbero potuto fare una nuova visita all’altipiano e quindi non bisognava dar loro la possibilità di rinnovare le loro gesta di predoni e d’incendiari. Quando l’isola fosse stata sgomberata dai malfattori, si sarebbe pensato a riedificare.

Il giovane convalescente aveva incominciato ad alzarsi nella seconda quindicina di gennaio, prima un’ora al giorno, poi due, poi tre. Le forze gli ritornavano a vista d’occhio, tanto la sua costituzione era vigorosa. Aveva ora diciotto anni. Era alto e prometteva di divenire un uomo bello e prestante. A datare da quel momento la sua convalescenza, pur esigendo ancora qualche cura, e benché il dottor Spilett si mostrasse severissimo, procedette regolarmente.

Verso la fine del mese, Harbert percorreva già l’altipiano di Bellavista e il litorale. Alcuni bagni di mare, presi in compagnia di Pencroff e di Nab, gli fecero un gran bene. Cyrus Smith credette di poter fin da allora stabilire il giorno della partenza, che venne fissata per il 15 febbraio. Le notti, molto chiare in quell’epoca dell’anno, sarebbero state propizie alle ricerche che si trattava di fare in tutta l’isola.

I preparativi richiesti dall’esplorazione furono dunque iniziati e dovevano essere assai accurati perché i coloni s’erano proposti di non rientrare a GraniteHouse, se prima non avessero raggiunto un doppio scopo: da una parte, distruggere i pirati e ritrovare Ayrton, se era ancora in vita; dall’altra scoprire colui che presiedeva così. efficacemente ai destini della colonia.

Dell’isola di Lincoln i coloni conoscevano a fondo tutta la costa orientale, dal capo Artiglio fino ai capi Mandibola, le vasti paludi delle tadorne, i dintorni del lago Grant, i boschi dello Jacamar, compresi fra la strada del recinto e il Mercy, i corsi d’acqua del Mercy e del Creek Rosso e, infine, i contrafforti del monte Franklin, tra i quali era stato costruito il recinto.

Avevano poi esplorato, ma solamente in modo imperfetto, il vasto litorale della baia Washington, dal capo Artiglio sino al promontorio del Rettile; il margine forestale e paludoso della costa ovest e quelle interminabili dune che finivano nelle fauci semiaperte del golfo del Pescecane.

Ma non avevano mai percorso i larghi tratti boscosi che coprivano la penisola Serpentine, tutta la destra del Mercy, la riva sinistra del fiume della Cascata e quel groviglio capriccioso di contrafforti e di controvalli che sostenevano per tre quarti la base del monte Franklin, a ovest, a nord e a est, dove molte migliaia di acri dell’isola erano sfuggiti alla loro esplorazione e, di conseguenza, anche parecchi nascondigli.

Fu, perciò, deciso che la spedizione avrebbe attraversato il Far West, in modo da comprendere tutta la parte situata sulla destra del Mercy.

Forse sarebbe stato meglio dirigersi prima di tutto verso il recinto, ove era da temere che i deportati si fossero di nuovo rifugiati, sia per depredarlo, sia per installarvisi. Ma, o la devastazione del recinto era ormai un fatto compiuto, e allora era troppo tardi per impedirla, o i deportati avevano trovato opportuno trincerarvisi, e in questo caso i coloni sarebbero stati sempre in tempo, per andarli a snidare da quel covo.