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Perciò, venne approvato nella discussione il primitivo progetto e i coloni risolsero di raggiungere, attraverso i boschi, il promontorio del Rettile. Si sarebbero aperti il cammino a colpi di scure, segnando così il primo tracciato d’una via di comunicazione fra GraniteHouse e l’estremità della penisola, per una lunghezza di sedici o diciassette miglia.

Il carro era in ottimo stato. Gli onagri, ben riposati, avrebbero potuto resistere per lungo tratto di strada. Viveri, oggetti da accampamento, cucina portatile, utensili diversi furono caricati sul carro, insieme alle armi e alle munizioni, scelte con ogni cura nell’arsenale, ormai così completo, di GraniteHouse. Ma bisognava non dimenticare che i deportati correvano forse i boschi e che, in mezzo a quelle fitte foreste, ci voleva poco a far partire una fucilata e poco anche a riceverla. Di qui la necessità, per la piccola schiera dei coloni, di restare compatta e di non dividersi per nessuna ragione.

Fu anche stabilito che nessuno sarebbe rimasto a GraniteHouse. Persino Top e Jup dovevano far parte della spedizione. L’inaccessibile dimora poteva anche custodirsi da sé.

Il 14 febbraio, vigilia della partenza, era una domenica. Fu consacrata interamente al riposo e santificata con le preghiere, che i coloni rivolsero al Creatore. Harbert, completamente guarito, ma ancora un po’ debole, avrebbe avuto un posto riservato sul carro.

L’indomani allo spuntar del giorno, Cyrus Smith prese le precauzioni necessarie per mettere GraniteHouse al sicuro da ogni invasione. Le scale che servivano un tempo all’ascensione furono portate ai Camini e profondamente sotterrate nella sabbia, in modo che potessero servire al ritorno, poiché il tamburo dell’ascensore fu smontato, e dell’apparecchiatura non restò più niente. Pencroff restò per ultimo in GraniteHouse per condurre a termine questa operazione, e ridiscese mediante una corda, l’altra estremità della quale era trattenuta in basso. Una volta tirata a terra, non lasciò più sussistere alcuna comunicazione fra il piano superiore e la spiaggia.

Il tempo era magnifico.

«Si prepara una giornata calda!» disse allegramente il giornalista.

«Ebbene, dottor Spilett,» rispose Pencroff, «cammineremo all’ombra degli alberi e non ci accorgeremo nemmeno del sole!»

«In cammino!» disse l’ingegnere.

Il carro aspettava sulla spiaggia davanti ai Camini. Il giornalista aveva preteso che Harbert vi prendesse posto, almeno durante le prime ore del viaggio e il giovinetto dovette sottomettersi alle prescrizioni del suo medico.

Nab si mise alla testa degli onagri, Cyrus Smith, il giornalista e il marinaio precedevano. Top sgambettava allegramente, Harbert aveva offerto a Jup un posto nel suo veicolo e Jup aveva accettato senza complimenti. Il momento della partenza era giunto e la piccola comitiva si mise in marcia.

Il carro prima svoltò l’angolo alla foce del Mercy, e dopo aver risalito per un miglio la riva sinistra del fiume stesso, attraversò il ponte alla cui estremità incominciava la strada di Porto Pallone, e là gli esploratori, lasciandola a sinistra, si addentrarono sotto la volta degli immensi boschi, che formavano la regione del Far West.

Durante le due prime miglia gli alberi, largamente spaziati fra loro, permisero al carro di circolare liberamente: di tanto in tanto bisognava tagliare delle liane e folti cespugli, ma nessun ostacolo serio arrestò la marcia dei coloni.

I densi rami degli alberi mantenevano una fresca ombra sul suolo. Deodara, douglas, casuarine, banksie, acacie gommifere, dracene e altre specie già note ai coloni si succedevano a perdita d’occhio. Nell’isola si trovava ogni specie di uccelli comuni: tetraoni, jacamar, fagiani, lori, e tutta la ciarliera famiglia dei cacatoa e dei pappagalli, maschi e femmine. Aguti, canguri, capibara correvano fra le erbe e tutto ciò rammentava ai coloni le prime escursioni fatte al loro arrivo nell’isola.

«Però» fece notare Cyrus Smith «sembra che questi animali, sia quadrupedi che volatili, siano più paurosi di allora. Questi boschi sono, dunque, stati recentemente percorsi dai deportati, dei quali dobbiamo sicuramente trovare le tracce.»

E, infatti, in parecchi punti, i coloni poterono osservare tutti gli indizi del passaggio, più o meno recente, di un gruppetto d’uomini: qui, rami d’alberi rotti, forse nell’intento di segnare il cammino; là, le ceneri d’un fuoco spento e le impronte di passi, che certe parti argillose del terreno avevano conservate. Ma, insomma, niente che sembrasse appartenere a un accampamento stabile.

L’ingegnere aveva raccomandato ai compagni di astenersi dal cacciare. Le detonazioni delle armi da fuoco avrebbero potuto metter sull’avviso i deportati, che s’aggiravano forse nella foresta. Poi, i cacciatori sarebbero stati necessariamente trascinati dalla caccia a qualche distanza dal carro, mentre era severamente proibito avanzare isolati.

Nella seconda parte della giornata, a sei miglia circa da GraniteHouse, divenne abbastanza difficile procedere. Per poter passare attraverso certi folti macchioni, bisognò abbattere degli alberi e aprirsi una strada. Prima però di entrare in quei fitti cedui, Cyrus Smith aveva cura di mandare avanti Top e Jup, che adempivano coscienziosamente il loro compito, e quando il cane e la scimmia ritornavano senza aver segnalato nulla, voleva dire che niente v’era da temere, né da parte dei deportati, né da parte delle fiere, due specie di individui del regno animale, messe allo stesso livello dai loro feroci istinti.

La sera di quella prima giornata, i coloni si accamparono a circa nove miglia da GraniteHouse, in riva a un piccolo affluente del Mercy, di cui ignoravano l’esistenza e che doveva collegarsi al sistema idrografico da cui il suolo dell’isola traeva la sua meravigliosa fertilità.

Cenarono abbondantemente, giacché il loro appetito era stato fortemente eccitato dalla marcia, e vennero prese le misure necessarie perché la notte passasse senza incidenti. Se l’ingegnere avesse avuto a che fare solo con gli animali feroci, giaguari o altro, avrebbe semplicemente acceso dei fuochi intorno al suo accampamento, e questo sarebbe bastato a difenderlo; ma i deportati sarebbero stati piuttosto attratti che fermati dalle fiamme, ed era, quindi, meglio in questo caso circondarsi di tenebre.

La sorveglianza fu, del resto, severamente organizzata. Due coloni dovevano vegliare insieme ed era convenuto che ogni due ore i compagni avrebbero dato loro il cambio. Ora, siccome Harbert, malgrado le sue proteste, fu dispensato da quel compito, Pencroff e Gedeon Spilett da una parte, l’ingegnere e Nab dall’altra, montarono la guardia uno dopo l’altro agli accessi dell’accampamento.

Del resto, la notte durò appena poche ore. L’oscurità era dovuta piuttosto alla folta cupola delle fronde che all’assenza del sole. Il silenzio fu appena turbato dai rauchi urli dei giaguari e dal ghignare delle scimmie, che sembrava irritare particolarmente mastro Jup.

La notte passò senza incidenti, e il giorno successivo, 16 febbraio, la marcia, più lenta che faticosa, venne ripresa attraverso la foresta.

In quel giorno, la comitiva non poté fare che sei miglia, perché a ogni momento bisognava aprirsi la strada con l’accetta. Da veri settlers, i coloni risparmiavano gli alberi grandi e belli, il cui taglio, d’altra parte, sarebbe costato loro enormi fatiche, e sacrificavano i piccoli; ma ne risultava che la strada prendeva una direzione poco rettilinea e s’allungava in numerose svolte.

Nel corso della giornata Harbert scoprì nuove specie di piante, la cui presenza non era ancora stata segnalata nell’isola, e cioè delle felci arborescenti, con foglie a palma ricadenti, che sembravano espandersi come le acque d’una fontana; dei carrubi, di cui gli onagri brucarono avidamente i lunghi baccelli dalle polpe zuccherine di sapore eccellente. I coloni trovarono pure colà dei magnifici kauri, disposti a gruppi, i cui tronchi cilindrici, coronati da un cono di verzura, s’elevavano a un’altezza di duecento piedi. Erano quelli i tipici alberi della Nuova Zelanda, celebri quanto i cedri del Libano.