«Affrettiamoci!» rispondeva invariabilmente l’ingegnere. E tutti lavoravano senza perdere un minuto.
«Padrone,» chiese Nab alcuni giorni dopo «credete voi che, se il capitano Nemo fosse ancora vivo, tutto questo sarebbe accaduto ugualmente?»
«Sì, Nab» rispose Cyrus Smith.
«Ebbene, io non lo credo!» mormorò Pencroff all’orecchio di Nab.
«Neanch’io!» rispose seriamente Nab.
Durante la prima settimana di marzo, il monte Franklin ridivenne minaccioso. Migliaia di vetri filiformi di lava fluida caddero come pioggia sul suolo. Il cratere s’empì di nuovo di lava, che si sparse su tutte le pendici del vulcano. Il torrente di lava corse alla superficie dei tufi induriti e finì di distruggere i pochi scheletri d’alberi che avevano resistito alla prima eruzione. Quella corrente, seguendo questa volta la riva sudovest del lago Grant, superò il Creek Glicerina e invase l’altipiano di Bellavista. Quest’ultimo colpo, che s’abbatteva sull’opera dei coloni, fu terribile. Del mulino, delle costruzioni del cortile rustico, delle stalle, non rimase più nulla. I volatili, spaventati, fuggirono in tutte le direzioni. Top e Jup davano segni del più grande sgomento: il loro istinto li avvertiva che una catastrofe era prossima. Molti animali dell’isola erano periti durante la prima eruzione. Quelli ch’erano sopravvissuti non trovarono altro rifugio che la palude delle tadorne, salvo alcuni, cui l’altipiano di Bellavista offrì ancora asilo. Ma anche quest’ultimo ricovero fu loro alla fine precluso, e il fiume di lava, scavalcando la cresta della muraglia granitica, cominciò a precipitare sulla spiaggia le sue cateratte di fuoco. Il sublime orrore di quello spettacolo sfugge a ogni descrizione. Durante la notte si sarebbe detto un Niagara di metallo fuso, con i vapori incandescenti in alto e le masse ribollenti in basso!
I coloni erano cacciati a viva forza anche dal loro ultimo trinceramento e, benché i comenti superiori del bastimento non fossero ancora calafatati, risolsero di vararlo ugualmente.
Pencroff e Ayrton procedettero ai preparativi del varo, che doveva aver luogo l’indomani, nella mattinata, cioè, del 9 marzo.
Ma durante la notte dall’8 al 9 un’enorme colonna di vapori, uscendo dal cratere, si elevò fra detonazioni spaventevoli a più di tremila piedi di altezza. La parete della cripta Dakkar aveva evidentemente ceduto sotto la pressione dei gas, e il mare, precipitandosi per il camino centrale nell’abisso ignivomo, vaporò immediatamente. Ma il cratere non poté dare uno sfogo sufficiente a quei vapori. Un’esplosione, che si sarebbe udita a cento miglia di distanza, sconvolse gli strati dell’aria. Interi pezzi di montagna caddero nel Pacifico e in pochi istanti l’oceano ricoperse l’area ov’era stata l’isola di Lincoln.
CAPITOLO XX
UNO SCOGLIO ISOLATO SUL PACIFICO «L’ULTIMO RIFUGIO DEI COLONI DELL’ISOLA DI LINCOLN» LA MORTE IN PROSPETTIVA «IL SOCCORSO INATTESO» PERCHÉ E COME ARRIVA «L’ULTIMO BENEFICIO» UN’ISOLA IN TERRAFERMA «LA TOMBA DEL CAPITANO NEMO»
UNO SCOGLIO isolato, lungo trenta piedi, largo quindici, emergente di dieci appena, tale era il solo punto solido, che i flutti del Pacifico non avessero inghiottito.
Era tutto quello che restava del massiccio di GraniteHouse! La muraglia era stata rovesciata, poi aveva subito uno smembramento e alcune rocce del salone s’erano ammonticchiate in modo da formare quel punto culminante. Tutto era scomparso nell’abisso circostante: il cono inferiore del monte Franklin, squarciato dall’esplosione, le mascelle laviche del golfo del Pescecane, l’altipiano di Bellavista, l’isolotto della Salvezza, i graniti di Porto Pallone, i basalti della cripta Dakkar, la lunga penisola Serpentine, pur sì lontana dal centro eruttivo! Dell’isola di Lincoln non si vedeva più che quello stretto scoglio, che serviva di rifugio ai sei coloni e al loro cane Top.
Gli animali erano tutti periti nella catastrofe, anche gli uccelli, come gli altri rappresentanti della fauna dell’isola, tutti schiacciati o annegati, e lo sfortunato Jup pure aveva, ahimè! trovato la morte in qualche crepaccio del suolo!
Se Cyrus Smith, Gedeon Spilett, Harbert, Pencroff, Nab, Ayrton erano sopravvissuti, era stato perché, riuniti al momento della catastrofe sotto la loro tenda, erano stati precipitati in mare nell’istante in cui le macerie dell’isola piovevano da tutte le parti.
Quando ritornarono alla superficie non videro che quell’ammasso di rocce, alla distanza di una mezza gomena, e verso di esso nuotarono, approdandovi. E da nove giorni vivevano su quel nudo macigno. Poche provviste prelevate, prima della catastrofe, dal magazzino di GraniteHouse, un po’ d’acqua dolce che la pioggia aveva versata in una cavità della roccia, era tutto ciò che gli sventurati possedevano. La loro ultima speranza, la loro nave, era stata distrutta. Non avevano nessun mezzo per abbandonare quello scoglio. Niente fuoco, né di che farne. Erano destinati a perire!
Quel giorno, 18 marzo, non rimaneva loro nutrimento che per due giornate, benché avessero consumato solo lo stretto necessario. Tutto il loro sapere, tutta la loro intelligenza a nulla potevano giovare in quella situazione. Erano unicamente nelle mani di Dio.
Cyrus Smith era calmo. Gedeon Spilett, più nervoso e Pencroff, in preda a una sorda collera, andavano e venivano sullo scoglio. Harbert non si staccava dall’ingegnere e lo guardava, come per chiedergli un soccorso, che questi non era purtroppo in grado di dargli. Nab e Ayrton erano rassegnati alla loro sorte.
«Ah! miseria! miseria!» ripeteva spesso Pencroff. «Se avessimo sia pure un guscio di noce, che ci conducesse all’isola di Tabor! Ma niente, niente!»
«Il capitano Nemo ha fatto bene a morire» disse una volta Nab. Durante i cinque giorni successivi, Cyrus Smith e i suoi sfortunati compagni vissero con la massima parsimonia, mangiando appena quel che occorreva per non morire di fame. Il loro indebolimento era estremo. Harbert e Nab cominciarono a dar segni di delirio.
In questa situazione potevano conservare una sola ombra di speranza? No! Qual era la sola probabilità che rimaneva ancora? Che una nave passasse in vista dello scoglio! Ma sapevano bene, per esperienza, che i bastimenti non transitavano mai per quella parte del Pacifico. Potevano contare che, per una coincidenza veramente provvidenziale, lo yacht scozzese venisse proprio allora a ricercare Ayrton all’isola di Tabor? Era improbabile e, d’altra parte, pur ammettendo che venisse, siccome i coloni non avevano potuto depositare all’isola di Tabor uno scritto indicante i cambiamenti sopravvenuti nella situazione di Ayrton, il comandante dello yacht, dopo aver frugato l’isolotto senza risultato, avrebbe ripreso il mare tornando verso latitudini più basse. No! essi non potevano avere alcuna speranza d’essere salvati, e una morte orribile, la morte per fame e per sete, li attendeva su quello scoglio!
E già erano distesi sulla roccia, inanimati, non avendo più coscienza di quanto accadeva intorno a loro. Ayrton solo, con uno sforzo supremo, rialzava ancora il capo di tratto in tratto e gettava uno sguardo disperato su quel mare deserto!…
Ma ecco che nella mattina del 24 marzo le braccia di Ayrton si tesero verso un punto dello spazio. Egli si mise prima in ginocchio, poi in piedi; la sua mano sembrò fare un segnale…
Una nave era in vista dell’isola! Quella nave non batteva il mare alla ventura. Lo scoglio occupato dai coloni era la mèta verso la quale aveva messo la prora, con tutta la forza delle sue macchine, e gli sventurati l’avrebbero scorta già molte ore prima, se avessero avuto ancora la forza d’osservare l’orizzonte!
«Il Duncan!» mormorò Ayrton e ricadde svenuto.
Quando Cyrus Smith e i suoi compagni ebbero ripreso i sensi, grazie alle cure loro prodigate, si trovarono nella cabina di un piroscafo, senza poter comprendere com’erano sfuggiti alla morte.