«Non è l’arcipelago delle Paumotu il più vicino a noi in latitudine?» domandò Harbert.
«Sì,» rispose l’ingegnere «ma la distanza che ce ne separa è di milleduecento miglia e più.»
«E da quella parte?» chiese Nab, che seguiva la conversazione con estremo interesse, accennando con la mano verso il sud.
«Da quella parte, niente» rispose Pencroff.
«Nulla, infatti» aggiunse l’ingegnere.
«Ebbene, Cyrus,» domandò il giornalista «se l’isola di Lincoln non si trovasse che a due o trecento miglia dalla Nuova Zelanda o dal Cile?…»
«Ebbene,» rispose l’ingegnere «invece di fare una casa, faremo un bastimento, e mastro Pencroff si incaricherà di governarlo…»
«Oh! signor Cyrus!» esclamò il marinaio «sono prontissimo a passar capitano… quando avrete trovato il modo di costruire un’imbarcazione abbastanza robusta per tenere il mare!»
«La faremo, se sarà necessario!» rispose Cyrus Smith.
Ma mentre quegli uomini, che veramente non temevano nulla, così conversavano, si avvicinava l’ora in cui doveva aver luogo l’osservazione. Come avrebbe fatto Cyrus Smith per rilevare il passaggio del sole sul meridiano dell’isola, senza alcuno strumento? Harbert non riusciva a indovinarlo.
I coloni si trovavano allora a una distanza di sei miglia dai Camini, non lungi da quella parte delle dune dove era stato trovato l’ingegnere, dopo il suo enigmatico salvataggio. Si fermarono e prepararono tutto per la colazione, giacché erano le undici e mezzo. Harbert andò a prendere dell’acqua dolce al ruscello che scorreva vicino, e la raccolse in una brocca di cui Nab s’era munito.
Mentre fervevano quei preparativi, Cyrus Smith, dal canto suo, apparecchiò l’occorrente per l’osservazione astronomica. Scelse sulla spiaggia uno spazio ben liscio e pulito, che il mare ritirandosi, aveva perfettamente livellato. Questo strato di sabbia finissima era levigato come uno specchio: non un granello che superasse l’altro. Poco importava, d’altronde, che quel tratto di spiaggia fosse orizzontale o no; né era molto più importante che la bacchetta, alta sei piedi, che vi fu piantata, si rizzasse perpendicolarmente. Anzi, l’ingegnere la inclinò verso il sud, vale a dire dalla parte opposta al sole, giacché non bisogna dimenticare che i coloni dell’isola di Lincoln, appunto perché l’isola si trovava nell’emisfero australe, vedevano l’astro radioso descrivere il suo arco diurno al di sopra dell’orizzonte del nord e non al di sopra dell’orizzonte del sud.
Harbert comprese allora come l’ingegnere avrebbe proceduto per constatare la culminazione del sole, cioè il suo passaggio al meridiano dell’isola, o in altre parole, il mezzogiorno del luogo. Ciò sarebbe avvenuto per mezzo dell’ombra proiettata sulla sabbia dalla bacchetta, mezzo che, in mancanza di strumenti, gli avrebbe dato una approssimazione sufficiente per il risultato che voleva ottenere.
Infatti, il momento in cui quell’ombra avrebbe raggiunto il suo minimo di lunghezza, sarebbe stato il mezzogiorno preciso, e sarebbe bastato seguire l’estremità di detta ombra per stabilire l’istante in cui, dopo esser gradatamente diminuita, essa avrebbe ricominciato ad allungarsi. Cyrus Smith, inclinando la sua bacchetta dal lato opposto al sole, rendeva l’ombra più lunga e, per conseguenza, le sue modificazioni più facili da constatare. Infatti, più l’ago di un quadrante è grande, più si può agevolmente seguire lo spostamento della sua punta. E l’ombra della bacchetta non era altro che l’ago di un quadrante.
Quando ritenne che il momento fosse giunto, Cyrus Smith s’inginocchiò sulla sabbia e, piantando in terra dei picchetti di legno, cominciò a segnare le successive diminuzioni dell’ombra della bacchetta. I suoi compagni, chini su di lui, seguivano l’operazione con estremo interesse.
Il giornalista teneva il cronometro in mano, pronto a rilevare l’ora che avrebbe segnato quando l’ombra fosse giunta alla sua lunghezza minima. Inoltre, siccome Cyrus Smith operava il 16 aprile, giorno in cui il tempo vero e il tempo medio coincidono, l’ora data da Gedeon Spilett sarebbe stata l’ora vera di Washington, il che avrebbe semplificato il calcolo.
Intanto il sole avanzava lentamente; l’ombra della bacchetta diminuiva a poco a poco, e quando parve a Cyrus Smith ch’essa ricominciasse a ingrandire:
«Che ora è?» diss’egli.
«Le cinque e un minuto» rispose subito Gedeon Spilett.
Non c’era che da fare i calcoli relativi alla osservazione. Niente di più facile. Come si vede, esisteva, in cifre tonde, una differenza di cinque ore fra il meridiano di Washington e quello dell’isola di Lincoln, vale a dire ch’era mezzogiorno all’isola di Lincoln, quando erano già le cinque di sera a Washington. Ora, il sole, nel suo moto apparente intorno alla terra, percorre un grado in quattro minuti, ossia quindici gradi per ora. Quindici gradi moltiplicati per cinque ore danno settantacinque gradi.
Dunque, poiché Washington è a 77° 3’ 11», e cioè a settantasette gradi contati a partire dal meridiano di Greenwich, che gli americani prendono per punto di partenza delle longitudini, d’accordo con gli inglesi, ne conseguiva che l’isola era posta a settantasette più settantacinque gradi a ovest del meridiano di Greenwich, vale a dire al centocinquantaduesimo grado di longitudine ovest.
Cyrus Smith annunciò questo risultato ai compagni, e tenendo conto degli errori d’osservazione, come aveva fatto per la latitudine, credette di poter affermare che la posizione dell’isola di Lincoln era fra il trentacinquesimo e il trentasettesimo parallelo e tra il centocinquantesimo e il centocinquantacinquesimo meridiano ovest del meridiano di Greenwich.
Lo scarto possibile, da lui attribuito agli errori di osservazione, era, come si vede, di cinque gradi nei due sensi, il che, a sessanta miglia per grado, poteva dare un errore di trecento miglia di latitudine o in longitudine in confronto al rilievo esatto.
Ma questo errore non poteva influire sul partito da prendere. Era evidente che l’isola di Lincoln si trovava a tale distanza da ogni terra o arcipelago, che sarebbe stato impossibile arrischiarsi a superare quella distanza su di una semplice e fragile barca.
Infatti, essa si trovava ad almeno milleduecento miglia da Tahiti e dalle isole dell’arcipelago delle Paumotu, a più di milleottocento miglia dalla NuovaZelanda, a più di quattromilacinquecento miglia dalla costa americana!
E per quanto Cyrus Smith frugasse nella sua memoria, non riusciva in nessun modo a ricordare che una qualsiasi isola occupasse, in quella parte del Pacifico, la posizione assegnata all’isola di Lincoln.
CAPITOLO XV
LO SVERNAMENTO DEFINITIVAMENTE DECISO «LA QUESTIONE METALLURGICA» ESPLORAZIONE DELL’ISOLOTTO DELLA SALVEZZA «LA CACCIA ALLE FOCHE» CATTURA DI UN ECHIDNA «IL KULA» CIÒ CHE SI CHIAMA METODO CATALANO «FABBRICAZIONE DEL FERRO» COME SI OTTIENE L’ACCIAIO
L’INDOMANI, 17 aprile, la prima domanda del marinaio fu per Spilett.
«Ebbene, signore,» gli domandò «che cosa diventeremo oggi?»
«Quello che piacerà a Cyrus» rispose il giornalista.
I compagni dell’ingegnere, da fornaciai e vasai ch’erano stati fino allora, stavano per diventare operai metallurgici.
Il giorno precedente, dopo colazione, l’esplorazione era stata spinta fino alla punta del capo Mandibola, distante quasi sette miglia dai Camini. Colà finiva la lunga serie delle dune, e il suolo prendeva un aspetto vulcanico. Non erano più alte muraglie granitiche, come quelle dell’altipiano Bellavista, ma una bizzarra e capricciosa cornice, formata dalle materie minerali eruttate dal vulcano, che cingeva lo stretto golfo compreso tra i due capi. I coloni, arrivati a quella punta, erano poi ritornati sui loro passi, e al cader della notte rientrarono ai Camini, ma non si addormentarono prima che fosse stata definitivamente risolta la questione di sapere se bisognava pensare a lasciare o no l’isola di Lincoln.