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Falco non rispondeva.

Alla fine si voltò bruscamente. Vera vide la sua faccia, rigida come ferro. Falco fece un gesto verso di lei, inequivocabilmente, invitandola a farsi avanti. Macmilan le lasciò il braccio. Incredula, Vera mosse un passo e un altro passo. I suoi occhi cercarono gli occhi di Lev: lui sorrideva. Era così facile la vittoria? Così facile?

Lo sparo del moschetto di Macmilan, accanto alla sua testa, la scagliò all’indietro, come per il rinculo dell’arma. Sbilanciata, fu gettata di lato dalla carica degli uomini in giubba bruna, e cadde carponi. Ci furono un crepitio, uno schiocco, un rombo, un acuto stridore sibilante come quello di un incendio, ma lontano, dove poteva ardere un incendio: lì c’erano soltanto uomini che si accalcavano e calpestavano e inciampavano. Vera si trascinò, cercando di nascondersi: ma non c’erano nascondigli, non c’era altro che il sibilo del fuoco, i piedi e le gambe, la calca e il terreno fradicio e pietroso.

C’era silenzio, ma non era un vero silenzio. Era un silenzio stupido, insensato, dentro la sua testa, dentro il suo orecchio destro. Scrollò il capo per scacciare quel silenzio. Non c’era abbastanza luce. Il sole era scomparso. Faceva freddo, il vento era freddo ma silenzioso. Rabbrividì e si sollevò a sedere, strinse le braccia contro il ventre. Che posto stupido per cadervi e giacere: s’irritò. Il suo bell’abito di seta arborea era infangato e macchiato di sangue, viscido sul petto e sulle braccia. Un uomo, giaceva al suolo accanto a lei. Non era grande e grosso. Le erano sembrati così giganteschi quando le stavano intorno: ma così, a terra, era esile, schiacciato al suolo come se cercasse di esserne parte, già semisommerso dal fango. Non era più un uomo, ma soltanto fango e capelli e una giubba bruna, lurida. Non era più un uomo. Non era rimasto nessuno. Lei aveva freddo, lì seduta, e quello era un posto assurdo: cercò di trascinarsi un poco. Non era rimasto nessuno che potesse travolgerla e farla cadere, ma non poteva ancora rialzarsi e camminare. D’ora in poi avrebbe dovuto sempre trascinarsi. Nessuno poteva più alzarsi. Non c’era nulla cui aggrapparsi. Nessuno poteva più camminare. Mai più. Giacevano tutti a terra, quei pochi che erano rimasti. Trovò Lev, dopo essersi trascinata per un tratto. Non era stato calpestato nel fango e nella terra come l’uomo dalla giubba bruna; c’era il suo volto, e gli occhi erano aperti e guardavano il cielo; ma non vedevano. Non era rimasta abbastanza luce. Non c’era più luce, e il vento non faceva rumore. Presto avrebbe piovuto: le nubi erano pesanti e compatte come un tetto. Una delle mani di Lev era stata calpestata, e le ossa fratturate spuntavano bianche. Vera si trascinò un po’ più in là, in un punto da dove non la vedeva, e prese l’altra mano di Lev. Era illesa, soltanto fredda. — Così… — disse, cercando di trovare le parole per confortarlo. — Così … Lev caro. — Udiva appena le parole che pronunciava, lontane nel silenzio. — Presto andrà tutto bene, Lev.

X

— Va tutto bene — disse Luz. — Va tutto bene. Non preoccuparti. — Doveva alzare la voce, e si sentiva sciocca a ripetere la stessa cosa: ma serviva sempre, per un po’. Vera si riadagiava e stava tranquilla. Ma poi avrebbe cercato ancora di sollevarsi e avrebbe chiesto cosa stava succedendo, ansiosa e impaurita. Avrebbe chiesto di Lev: — Lev sta bene? Aveva la mano ferita. — E poi avrebbe detto che doveva tornare in città a casa Falco. Non avrebbe mai dovuto venire insieme agli uomini armati di moschetto: era colpa sua, perché aveva tanto desiderato tornare a casa. Se si fosse riconsegnata come ostaggio le cose sarebbero andate meglio, no? — Va tutto bene, non preoccuparti — disse Luz, a voce alta perché l’udito di Vera era lesionato. — Va tutto bene.

E infatti la gente andava a letto la sera e si alzava al mattino, preparava i pasti e li consumava, parlava: tutto continuava. Luz continuava a vivere. La sera andava a letto. Era difficile addormentarsi, e quando dormiva si svegliava nel buio, sfuggendo a un’orribile folla di gente che spingeva e urlava; ma questo non era vero. Non accadeva. Era accaduto. La stanza era buia e silenziosa. Era accaduto, era finito, e tutto continuava.

Il funerale dei diciassette che erano stati uccisi si svolsero due giorni dopo la marcia sulla città; alcuni dovevano essere sepolti nei loro villaggi, ma il raduno e il servizio, per tutti, si svolse alla Casa delle Riunioni. Luz sentiva che non sarebbe dovuta andare, che Andre e Southwind e gli altri si sarebbero sentiti più a loro agio se non fosse andata con loro. Disse che sarebbe rimasta con Vera, e la lasciarono fare. Ma dopo che era trascorso un po’ di tempo nel silenzio assoluto della casetta, in mezzo ai campi spazzati dalla pioggia, mentre Vera dormiva e Luz toglieva i semi dalle fibre dell’albero della seta, tanto per fare qualcosa, un uomo venne alla porta, un uomo esile dai capelli grigi. In un primo momento, Luz non lo riconobbe. — Sono Alexander Shults — disse. — Vera dorme? Vieni. Non dovevano lasciarti qui. — E la condusse alla Casa delle Riunioni, al termine del servizio funebre, e poi al cimitero, nella silenziosa processione che portava le dodici bare di Shantih. E Luz, avvolta nello scialle nero, sotto la pioggia, stette accanto alla tomba, al fianco del padre di Lev. Gli era grata, anche se non gli diceva nulla e lui non diceva nulla a lei.

Luz e Southwind lavoravano ogni giorno nel campo di patate di Southwind, perché era necessario raccogliere le patate altrimenti entro pochi giorni avrebbero cominciato a marcire nella terra fradicia. Lavoravano insieme quando Vera dormiva; e facevano a turno, una nel campo e l’altra in casa, quando lei era sveglia e aveva bisogno di avere qualcuno accanto. Spesso venivano la madre di Southwind e la grossa ed efficiente Italia, amica di Southwind; e Andre veniva una volta al giorno, sebbene anche lui dovesse lavorare nei campi e trascorrere ogni giorno un po’ di tempo nella Casa delle Riunioni con Elia e gli altri. Elia era il responsabile: era Elia, adesso, che parlava con gli uomini della città. Andre riferiva a Luz e a Southwind ciò che era stato detto e fatto; non esprimeva le proprie opinioni; Luz non sapeva se approvava o disapprovava. Tutte le opinioni, le convinzioni, le teorie, i principii, tutto era scomparso, travolto, morto. Il greve, vinto dolore della grande folla al funerale era l’unica cosa rimasta. Diciassette morti di Shantih, là sulla strada; otto morti della città. Erano morti in nome della pace, ma avevano anche ucciso in nome della pace. Tutto era crollato. Gli occhi di Andre erano scuri come carboni. Scherzava per rincuorare Southwind (e Luz vedeva, come ora vedeva tutto, spassionatamente, che Andre era innamorato da tempo di Southwind), e le due giovani donne sorridevano delle sue battute e cercavano d’indurlo a riposare un po’, lì con loro e Vera. Luz e Southwind lavoravano insieme, il pomeriggio, nei campi. Le patate erano piccole, sode e pulite, e uscivano dal fango con la loro finissima trina di radici. C’era un certo piacere nel lavoro dei campi; in tutto il resto non ce n’era molto.

Di tanto in tanto Luz pensava: "tutto ciò non sta accadendo davvero," perché le sembrava che quanto accadeva fosse soltanto un’immagine, come un gioco d’ombre dietro il quale stava la realtà. Era uno spettacolo di marionette. Era tutto così strano, in fondo. Cosa faceva, lei, in un campo, nel pomeriggio inoltrato, sotto l’acquerugiola scura, con un paio di calzoni rattoppati, infangata fino alle cosce e ai gomiti, a raccogliere le patate per Shantih? Non doveva far altro che andarsene e tornare a casa. La gonna azzurra e la camicetta ricamata erano appese, pulite e ben stirate, nell’armadio del suo spogliatoio; Teresa le avrebbe portato l’acqua calda per il bagno. Con quel tempo, nel camino all’estremità ovest del salone di casa Falco dovevano esserci grossi ciocchi e un fuoco che ardeva allegramente. Oltre gli spessi vetri delle finestre, la sera si faceva sempre più blu sopra la baia. Sarebbe passato il medico a fare due chiacchiere, insieme al suo vecchio amico Valera; oppure il vecchio consigliere Di Giulio, per fare una partita a scacchi con Don Luis…