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Fredric Brown

L’ultimo dei marziani

Era una sera come tutte le altre, ma più morta del solito. Ero tornato al giornale dopo aver presenziato d’ufficio a un noiosissimo banchetto, dove per giunta il menu era così scadente che, sebbene non mi fosse costato nulla, m’ero sentito defraudato. Per ammazzare il tempo stavo scrivendo un lungo ed entusiastico resoconto della cerimonia, di due colonne almeno. Prima che andasse in macchina me l’avrebbero scorciato a un paio di paragrafi freddi freddi, naturalmente.

Slepper sedeva coi piedi sulla scrivania, perché fosse ben chiaro che non faceva niente, e Johnny Hale stava cambiando il nastro alla sua macchina per scrivere. Gli altri cronisti erano in giro coi soliti incarichi.

Cargan, il capocronista, uscì dal suo ufficio privato e si avvicinò a noi.

— Qualcuno di voi ragazzi conosce Barney Welch? — domandò.

Una domanda stupida. Barney è il padrone del Barney’s Bar proprio in faccia al Tribune, dall’altra parte della strada. Non c’è un solo cronista del Tribune che non conosca Barney abbastanza bene da chiedergli un prestito. Così tutti noi facemmo segno di sì.

— M’ha telefonato adesso — disse Cargan. — C’è un tizio giù nel suo locale che dice di essere un marziano.

— Sbronzo o matto? — volle sapere Slepper.

— Barney non l’ha ancora capito, ma dice che forse si potrebbe tirar fuori un pezzo, se qualcuno di voi ha voglia di andar giù a parlare con l’amico. Dato che l’abbiamo proprio di faccia, e dato che voi tre poverini siete qui a morire di noia, uno può anche scendere a dare un’occhiata. Ma nemmeno una goccia in conto al giornale, siamo intesi?

Slepper disse: — Ci vado io — ma gli occhi di Cargan s’erano fermati su di me. — Sei libero, Bill? — chiese. — Può essere una storia spassosa, e tu hai un tocco speciale nel genere brillante.

— Va bene — borbottai — ci vado.

— Forse è solo un ubriaco che vuol fare lo spiritoso, ma se l’amico è matto chiama la polizia, a meno che riesca a tirarci fuori un pezzo umoristico. Se invece lo arrestano, puoi mettere insieme un pezzo umano.

Slepper disse: — Cargan, tu saresti capace di far arrestare tua nonna, per tirar fuori un pezzo. Posso andare con Bill, giusto per cambiare aria?

— No, tu e Johnny restate qui. Non ho alcuna intenzione di trasferire tutta la sala cronaca nel locale di Barney. — Cargan rientrò nel suo ufficio.

Infilai la cronaca del banchetto nel tubo pneumatico, e presi cappello e soprabito. Slepper disse:

— Bevi anche per conto mio, Bill. Ma non bere tanto da perdere quel tocco speciale.

— Come no — risposi, andai alla porta e scesi le scale.

Entrai da Barney e mi guardai intorno. Non c’era nessuno del Tribune, salvo due linotipisti che giocavano a carte a uno dei tavoli. Oltre a Barney, che se ne stava dietro il buco, c’era solo un’altra persona nel locale. Era un uomo alto magro, dal colorito giallognolo, che sedeva tutto solo in uno dei séparé, gli occhi perduti in un bicchiere di birra semivuoto.

Pensai prima di tutto di sentire la campana di Barney, così mi avvicinai al banco e tirai fuori un dollaro. — Uno semplice — dissi. — Liscio, acqua a parte. E il marziano che hai segnalato a Cargan è lo spilungone laggiù, con la faccia da funerale?

Annuì e mi versò da bere.

— Da che parte lo devo prendere? — chiesi. — Sa che sono un giornalista che vuole intervistarlo? O mi limito ad offrirgli da bere e lo faccio cantare? Fino a che punto è pazzo?

— A me lo chiedi? Dice che è arrivato da Marte due ore fa, e sta ancora cercando di orizzontarsi. Dice che è l’ultimo marziano vivente. Non sa che sei un giornalista, ma muore dalla voglia di parlarti. L’ho montato a dovere.

— E come?

— Gli ho detto che avevo un amico intelligentissimo, che poteva dargli un buon consiglio. Non ho fatto nomi, perché non sapevo chi avrebbe mandato Cargan. Ma non chiede altro che mettersi a piangere sulla tua spalla.

— E il suo nome lo sai?

Barney fece una smorfia. — Yangan Dal, dice. Senti bene, cerca di non farlo andare in smanie qui dentro. Non voglio guai.

Vuotai il bicchiere d’un colpo solo e ci bevvi sopra un sorso d’acqua. Dissi: — D’accordo, Barney. Facciamo così, dammi due birre e le porto io al suo tavolo.

Barney spillò due birre Fece suonare sessanta centesimi sul registratore mi diede il resto ed io partii per l’intervista.

— Il signor Dal? — dissi. — Mi chiamo Bill Everett. Barney mi dice che siete in difficoltà. Spero di potervi essere d’aiuto.

L’uomo alzò gli occhi dal bicchiere — Siete voi l’amico al quale ha telefonato? Sedete, signor Everett. E grazie per birra.

M’infilai sul sedile accanto a lui. L’uomo tracannò in retta l’ultimo sorso di birra che gli era rimasto e strinse le dita nervose intorno al bicchiere che gli avevo portato.

— Voi penserete che sono pazzo — disse. — E forse avete ragione, ma il fatto è… non ci capisco niente nemmeno io. Il barista crede che io sia matto, immagino. Sentite, siete un medico voi?

— Non esattamente — dissi. — Diciamo che sono un consulente psicologico.

— Credete che io sia pazzo?

Dissi: — Quasi tutti quelli che lo sono non vogliono ammetterlo. Ma ancora non ho sentito che cosa vi è successo.

L’uomo bevve un lungo sorso di birra e rimise giù il bicchiere, ma non staccò le mani dal vetro, forse perché, stringendo qualcosa, non tremavano più.

Disse: — Sono un marziano. L’ultimo dei marziani. Tutti gli altri sono morti. Ho visto i loro cadaveri solo due ore fa.

— Eravate su Marte due ore fa? E come siete arrivato fin qui?

— Non lo so. È questo il terribile. Non lo so. Tutto quel che so è che gli altri erano morti, i corpi cominciavano già a imputridire. Era una cosa spaventosa. Eravamo cento milioni, e adesso sono rimasto soltanto io.

— Cento milioni. È la popolazione di Marte?

— All’incirca. Forse un po’ di più. Ma ormai è finita, sono morti tutti, tranne io. Ho visitato tre città, le tre città principali. Mi trovavo a Skar, e quando ho scoperto che là erano morti tutti ho preso un targan, non c’era nessuno per fermarmi, e in volo ho raggiunto Undanel. Non avevo mai piotato un targan in vita mia, ma i comandi erano molto semplici. Anche a Undanel erano tutti morti. Ho rifatto il pieno e sono ripartito. Volavo basso e guardavo giù, ma non ho visto altro che morti. Ho volato fino a Zandar, la città più grande, più di tre milioni di abitanti. Ed erano tutti morti, fino all’ultimo, e cominciavano a decomporsi. Era uno spettacolo orribile, vi dico. Orribile. Non riesco a dimenticano.

— Immagino — dissi.

— Non potete immaginarlo. Certo, il nostro era ormai un mondo condannato; al massimo saremmo durati ancora per una dozzina di generazioni. Due secoli fa eravamo tre miliardi… e quasi tutti morivano di farne. Fu il kryl, il morbo portato dal vento del deserto, e che i nostri scienziati non riuscirono a curare. In due secoli ridusse la popolazione di due terzi, e continuava a far vittime.

— E così il vostro popolo è stato sterminato da questo… kryl?

— No. Quando un marziano muore di kryl, il suo corpo si raggrinzisce tutto, rimpicciolisce. I cadaveri che ho visto non erano così. — Rabbrividì e bevve quel che restava nel bicchiere. Mi accorsi di aver trascurato il mio e lo vuotai. Alzai due dita verso Barney, che guardava verso di noi e sembrava preoccupato.

Il mio marziano continuò a raccontare. — Cercammo di realizzare il volo interplanetario, ma non ci riuscimmo! Pensavamo che almeno una parte di noi avrebbe potuto salvarsi dal kryl emigrando sulla Terra o in qualche altro mondo. Tentammo ma senza successo. Non riuscimmo neppure a raggiungere Deimos o Phobos, le nostre due lune.