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— Penso comunque che chiederò di essere scortato dalla polizia — dissi e lui scoppiò a ridere, affermò che quello era il modo migliore per cercare guai e di nuovo mi consigliò, fermamente, di non avere paura, che non mi sarebbe successo niente se fossi andato solo.

La voce interiore di cui seguo sempre i suggerimenti mi disse di avere fiducia e così mi recai da Carvajal senza la scorta di polizia, ma non senza paura.

Nessun taxi si sarebbe addentrato in quella parte di Brooklyn e nessun mezzo pubblico, ovviamente, arriva in posti del genere; presi in prestito una macchina non segnata tra quelle dell’amministrazione municipale e la guidai io, non avendo il coraggio di arrischiare la pelle di un autista.

Arrivai in orario, intatto se non del tutto tranquillo, alla casa di Carvajal. Per strada mi ero aspettato di trovare sporcizia e mucchi fatiscenti di spazzatura, aree cosparse di macerie di edifici in demolizione, simili ai buchi lasciati dai denti caduti; ma non mi aspettavo carcasse secche e annerite di animali — cani, capre, maiali? — e neppure le folte erbacce che crescevano rompendo l’asfalto come se fosse una città fantasma, e neppure il fetore di escrementi umani o i turbinii di sabbia in cui si affondava fino alla caviglia. Un getto di calore torrido mi investì quando uscii, timidamente e con paura, dal fresco della macchina. Benché si fosse solo all’inizio di giugno, un tremendo calore da fine agosto cuoceva quelle miserabili rovine.

Attivai il dispositivo d’allarme della macchina. Quanto a me, avevo un bastone antipersone caricato al massimo e indossavo un cono difensivo pure al massimo che avrebbe abbattuto un malintenzionato a una dozzina di metri. Pure, mi sentivo tremendamente indifeso mentre attraversavo il cupo asfalto, sapendo di non essere protetto contro un’eventuale pallottola sparata dall’alto. Invece, benché alcuni visi terrei mi spiassero con astio dall’oscurità delle finestre cadenti e scrostate, e alcuni cow-boy di strada dai fianchi stretti mi lanciassero lunghe occhiate scostanti, non ci fu nessun colpo di fucile dal quarto piano. In seguito appresi che non sarei riuscito a sopravvivere sessanta secondi dopo essere uscito dalla macchina se Carvajal non avesse dato degli ordini riguardo alla mia incolumità. In quella giungla bruciata la sua autorità era immensa; agli occhi dei suoi feroci vicini Carvajal era una specie di stregone, un totem sacro, un pazzo santo, rispettato, temuto e obbedito. La sua seconda vista, senza dubbio, usata con buon senso e con effetto impressionante, l’aveva reso invulnerabile, laggiù — nella giungla nessuno scherza con lo sciamano — e ora aveva esteso il suo mantello protettivo su di me.

Il suo appartamento era al quinto piano. Non c’era ascensore. Ogni piano di scale fu un’avventura allucinante. Sentivo lo sgambettìo dei topi giganteschi; soffocavo e avvertivo i conati di vomito per strani odori ripugnanti; immaginavo assassini di sette anni nascosti in ogni pozza d’ombra.

Raggiunsi la sua porta senza incidenti. Aprì prima che riuscissi a trovare il campanello. Nonostante il caldo, Carvajal indossava una camicia bianca con il colletto chiuso, una giacca di tweed grigio e una cravatta marrone. Sembrava un professore in attesa di sentirmi ripetere le coniugazioni e le declinazioni latine.

— Visto? — mi disse — sano e salvo. Nessun guaio.

Carvajal viveva in tre stanze: una camera da letto, un soggiorno e una cucina. I soffitti erano bassi, l’intonaco scrostato, le pareti di un verde sbiadito sembrava che fossero state verniciate l’ultima volta al tempo di Dick Nixon il Dritto. Il mobilio era anche più vecchio, doveva risalire all’epoca di Truman ed era pomposo e troppo imbottito, ricoperto di una stoffa a fiori da cui spuntavano robuste zampe da rinoceronte. Non c’era aria condizionata e si soffocava; l’illuminazione era a incandescenza e pallida; il televisore era un vecchio modello da tavolo; il lavello della cucina aveva acqua corrente e non ultrasuoni. Quando ero un ragazzino, a metà degli Anni 70, uno dei miei amici più cari aveva perduto il padre in Vietnam. Il mio amico viveva con i nonni e la loro casa era identica a questa. L’appartamento di Carvajal conservava misteriosamente l’atmosfera dell’America della metà del secolo; era come l’inquadratura di un film o una stanza d’epoca dello Smithsonian Museum. Con ospitalità assente e distratta mi fece accomodare sul logoro divano del soggiorno e si scusò per non avere né liquori né droghe da offrirmi. Non era un vizioso, mi spiegò, e il quartiere non offriva molto.

— Non ha importanza — ribattei magnanimamente. — Andrà benissimo anche un bicchiere d’acqua.

L’acqua era tiepida e sapeva leggermente di ruggine. Sedevo impalato, con la spina dorsale rigida e le gambe tese. Carvajal, appollaiato sul cuscino di una poltrona alla mia sinistra, disse: — Non mi sembrate a vostro agio, signor Nichols.

— Tra un minuto o due sarò completamente rilassato. Sapete, il tragitto per arrivare qui…

— Ma certo.

— Comunque, nessuno mi ha dato fastidio giù in strada. Confesso che mi aspettavo di trovarmi nei guai, ma…

— Ve l’avevo detto che non vi sarebbe stato torto un capello.

— Eppure…

— Ma ve l’avevo detto — ribatté dolcemente. — Non mi credete? Avreste dovuto credermi, signor Nichols. Lo sapete bene.

— Penso che abbiate ragione — convenni, pensieroso.

Gilmartin, coagulamento, Leydecker. Carvajal mi offrì ancora dell’acqua. Meccanicamente sorrisi e scossi la testa. C’era un silenzio viscoso. Dopo un attimo, osservai: — È strano che una persona come voi scelga di vivere qui.

— Strano? Perché?

— Un uomo con i vostri mezzi potrebbe vivere in qualunque altra parte della città.

— Lo so.

— Perché qui, allora?

— Ho sempre vissuto qui — ribatté tranquillamente. — Questa è l’unica casa che abbia mai avuto. I mobili appartenevano a mia madre e alcuni a sua madre. Sento gli echi di voci familiari in questa stanza, signor Nichols. Avverto la presenza viva del passato. È così strano continuare a vivere dove si è sempre vissuti?

— Ma il quartiere…

— È decaduto, sì, lo so. Sessant’anni provocano dei grossi cambiamenti. Ma i cambiamenti non sono mai stati molto visibili ai miei occhi. Un tranquillo declino, anno dopo anno, poi, forse, un declino più rapido, ma io sono accomodante e malleabile. Mi abituo a ciò che è nuovo e gli faccio posto tra ciò che è sempre stato. E poi ogni cosa mi è così familiare, signor Nichols, i nomi scritti sul cemento fresco quando l’asfalto era nuovo, tanto tempo fa, il grande albero d’ailanto nel cortile della scuola, le grondaie rovinate dalle intemperie dell’edificio dirimpetto. Capite quello che voglio dire? Perché dovrei lasciare queste cose per un abbagliante condominio a Staten Island?

— Per i pericoli, innanzi tutto.

— Non c’è pericolo. Non per me. Questa gente mi guarda come l’ometto che è sempre stato qui, il simbolo della stabilità, l’unica costante in un universo di flusso entropico. Per loro io ho un valore rituale. Sono una specie di pegno di buona fortuna, forse. Comunque, nessuno di quelli che vivono qui mi ha mai molestato. E nessuno lo farà mai.

— Potete esserne sicuro?

— Sì — rispose Carvajal con incrollabile sicurezza, guardandomi fisso negli occhi. Provai di nuovo quel senso di freddo, la sensazione di essere sull’orlo di un abisso, sensazioni che andavano oltre la mia comprensione. Ci fu un altro lungo silenzio. Emanava una forza da lui, una potenza che contrastava con il suo aspetto scialbo, il suo modo di fare tranquillo, la sua espressione consunta e logora.

Alla fine mi ricordò: — Volevate farmi delle domande, signor Nichols.

Annuii. Tirando un profondo respiro, mi buttai a capofitto.

— Sapevate che Leydecker sarebbe morto questa primavera, non è vero? Voglio dire, voi non avete previsto che sarebbe morto. Lo sapevate.