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— Cosa?

— Perché no? Supponete che vi siano molti universi, ciascuno indipendente dagli altri, ciascuno con il proprio singolo gruppo di soli e pianeti su cui gli avvenimenti si verificano nella loro unicità per quell’universo. Un’infinità di universi, Lew. C’è una ragione logica perché il tempo debba fluire nella stessa direzione?

— L’entropia — brontolai. — Le leggi della termodinamica. L’arco del tempo. Causa ed effetto.

— Non confuterò nessuna di queste teorie. Per quello che ne so, sono tutte valide in un sistema chiuso. Ma un sistema chiuso non ha responsabilità entropiche relative a un altro sistema chiuso, non è vero? Il tempo può scattare da A a Z in un universo e da Z ad A in un altro, ma solo un osservatore posto al di fuori di entrambi lo può sapere, perché in ciascun universo il flusso quotidiano scorre dalla causa all’effetto e non al contrario. Ne ammettete la logica?

Chiusi gli occhi un momento.

— Va bene. Abbiamo un’infinità di universi separati l’uno dall’altro, e la direzione del flusso temporale, in ciascuno di essi, può sembrare capovolta rispetto agli altri. Va bene. E allora?

— In un’infinità di qualsiasi cosa, esistono tutti i possibili casi, esatto?

— Sì. Per definizione.

— Quindi convenite anche voi che al di fuori di quella infinità di universi separati ne può esistere uno identico al nostro in tutti i particolari, tranne che nella direzione del suo flusso temporale?

— Non sono sicuro di afferrare…

— Guardate — esclamò con impazienza, indicando la linea che andava da X' a Y'. — Questo è un altro universo, a fianco del nostro. Tutto ciò che accade nel nostro, anche nel minimo particolare, accade nell’altro. Ma in questo la creazione è in Y' invece che in Y. Quaggiù — e tratteggiò una riga attraverso la seconda linea vicino al mio lato del tavolo — vi è l’uomo di Neanderthal. Qui la Crocifissione. Qui il 1939; il 1966, il 1999 e il 2056. Gli stessi avvenimenti, le stesse date chiave, ma che vanno in senso inverso. In senso inverso, cioè, se voi per caso vivete in questo universo e riuscite a fare capolino nell’altro. Là, naturalmente, tutto sembra andare nella direzione giusta.

Carvajal estese le righe perpendicolari dal 1939 al 1999 segnate sulla linea X–Y finché incontrarono la linea X'–Y', e fece lo stesso con le righe dal 1999 al 1939 segnate sulla seconda lìnea. Poi chiuse le due serie di righe collegando le estremità, fino a formare uno schema come questo:

Un cameriere di passaggio lanciò un’occhiata a ciò che Carvajal stava facendo sulla tovaglia e, tossicchiando, passò oltre, senza dire niente e con un’espressione impenetrabile. Carvajal non sembrò neppure notarlo. Continuò: — Adesso supponiamo che una persona nata nell’universo X–Y riesca, Dio sa perché, a vedere di tanto in tanto nell’universo X'–Y'. Io. Eccomi dunque qua, in movimento dal 1939 al 1999 nell’universo X–Y, con la possibilità di fare capolino occasionalmente nell’universo X'–Y' e di osservare gli avvenimenti dei loro anni dal 1939 al 1999 che sono identici ai nostri, con la differenza che trascorrono in senso inverso, cosicché al tempo della mia nascita qui, ogni avvenimento della mia vita in X–Y si è già verificato in X'–Y'. Quando la mia coscienza entra in collegamento con quella del mio altro io nell’altro universo, la colgo nel momento in cui ricorda il suo passato, che è poi il mio futuro.

— Molto chiaro.

— Sì. La persona normale confinata in un unico universo può vagare a piacere con la propria memoria, ritornando quando vuole al proprio passato. Io, invece, ho accesso alla memoria di qualcuno che vive in direzione opposta e questo mi permette di “ricordare” il futuro altrettanto bene che il passato. Posto, naturalmente, che la teoria della doppia linea di tempo sia corretta.

— Lo è?

— Come posso saperlo? È solo un’ipotesi operativa plausibile per spiegare quello che succede quando “vedo”. Ma come potrei provarla?

Dopo un po’ di tempo, chiesi: — Le cose che “vedete”… vi giungono in ordine cronologico inverso? Come se il futuro si srotolasse in una pergamena continua?

— No, mai. Così come i vostri ricordi non formano un unico rotolo continuo. Ricevo visioni irregolari, frammenti di scene, a volte passaggi abbastanza lunghi che hanno apparentemente una durata di dieci o quindici minuti o anche più, ma si tratta sempre di un guazzabuglio disordinato, mai di una sequenza lineare, consecutiva. Ho imparato poi io a trovare il quadro più vasto della situazione, a ricordare le sequenze e a legarle insieme in un ordine plausibile. È stato come imparare a leggere la poesia babilonese decifrando le iscrizioni cuneiformi su mattoni rotti e scrostati. Poco per volta ho elaborato delle indicazioni che mi guidassero nelle ricostruzioni del futuro: questo è il mio viso quando avrò quarant’anni, quando ne avrò cinquanta e quando ne avrò sessanta; questi sono gli abiti che ho indossato dal 1965 al 1973; questo è il periodo in cui ho portato i baffi, quando i miei capelli erano scuri, oh, un’intera schiera di piccoli riferimenti e associazioni e postille che alla fine mi sono diventati così familiari da poter vedere ogni scena, anche la più breve, e collocarla al posto giusto in uno spazio di settimane o anche giorni. All’inizio non è facile, ma ora è diventata come una seconda natura.

— State “vedendo” in questo momento?

— No. È necessario un notevole sforzo per provocare la condizione. È come cadere in trance — un’ombra spettrale gli passò sul viso. — Quando è molto forte, è quasi una doppia visione, un mondo che si sovrappone all’altro, tanto che non sono del tutto sicuro quale sia il mondo in cui vivo e quale quello che “vedo”. Dopo tutti questi anni non mi sono ancora abituato a quel disorientamento, a quella confusione. Di solito non è così intenso. Fortunatamente.

— Potete farmi vedere com’è?

— Qui? Adesso?

— Se volete.

La sua espressione cambiò, gli occhi si fecero vitrei, fissi come se stesse assistendo a un film dall’ultima fila di un cinema enorme, oppure come se fosse assorto in una profonda meditazione. Le sue pupille si dilatarono e gli occhi, una volta spalancati, rimasero immobili, incuranti delle fluttuazioni della luce quando passava qualcuno accanto al nostro tavolo. Il viso mostrava una tensione tremenda. Il respiro era lento, rauco e regolare. Sedeva perfettamente immobile; sembrava assente. Passò, forse, un minuto; a me sembrò insopportabilmente lungo. Poi la sua fissità si frantumò come un ghiacciolo che cade a terra. Si rilassò e le spalle s’incurvarono in avanti; il colore tornò alle guance in un riflusso rapido di sangue; gli occhi gli si bagnarono e ritornarono tristi; prese con mano tremante il bicchiere pieno d’acqua e ne bevve il contenuto.

Alla fine chiese: — Quanto è durato?

— Solo pochi attimi. È sembrato molto più lungo di quanto non sia stato in realtà.

— Per me è durato mezz’ora. Come minimo.

— Cosa avete “visto”?

Scosse le spalle.

— Niente che non abbia già “visto”. Le stesse scene ritornano, sapete, cinque, dieci, venti volte. Come nel ricordo. Ma il ricordo altera le cose. Invece, le cose che io “vedo” non cambiano mai.

— Volete parlarne?

— Non è niente — ribatté, sbrigativo. — Qualcosa che accadrà la primavera prossima. C’eravate anche voi. Passeremo molto tempo insieme, noi due, nei mesi prossimi.

— Che cosa stavo facendo?

— Guardando.

— Guardando chi?

— Me.

Sorrise, e fu un sorriso scheletrico, un terribile, pallido sorriso, un sorriso simile a quello che avevo visto quel primo giorno nell’ufficio di Lombroso. L’imprevedibile ottimismo di venti minuti prima l’aveva abbandonato. Rimpiansi di avergli chiesto una dimostrazione; era come se avessi chiesto a un moribondo di ballare la giga. Dopo un momento di silenzio imbarazzato, però, sembrò riprendersì. Tirò una spavalda boccata dal suo sigaro, finì di bere lo sherry, si rimise a sedere eretto.