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Ma io lo rassicuravo: — Vedrai che l’avrà — e Quinn l’accettava senza parole.

Lombroso, invece, doveva aver capito che molti di quegli appunti venivano da Carvajal. Ma non mi disse mai niente a riguardo, né, penso, a Quinn o a Mardikian.

Carvajal mi dava anche istruzioni di carattere personale.

— È tempo che vi facciate tagliare i capelli — mi disse ai primi di settembre.

— Corti, volete dire?

— A zero.

— Mi state dicendo di raparmi del tutto?

— Esatto.

— No. Se c’è una moda idiota che detesto…

— Sciocchezze. In questo mese comincerete a portare i capelli così. Fatelo domani, Lew.

— Ma non ho neppure una crema depilatoria In casa — obiettai. — E poi non è…

— Vi ho “visto” farlo. Come potete discutere?

Avrei potuto discutere, ovviamente, ma che senso aveva?

Mi aveva “visto” calvo; e quindi andai a comprare una crema depilatoria. Nessuna domanda, mi aveva detto Carvajal quando mi ero imbarcato in questa storia: segui il copione, ragazzo.

Mi costrinsi a entrare da un barbiere. Ne uscii che sembravo un Eric von Stroheim di dimensioni maggiori, ma senza il monocolo e il colletto duro.

— Fantastico! — gridò Sundara. — Sei meraviglioso!

Fece scorrere teneramente le mani sul mio cranio ispido.

Era la prima volta in due o tre mesi che sentivo una certa corrente stabilirsi tra noi. Le piaceva il mio taglio di capelli, ne andava pazza. Era ovvio che fosse così: farsi tosare in quel modo era una pazzia che le ricordava molto il Transit. Per lei era il segno che dopo tutto anch’io potevo ancora essere salvato.

Ci furono altri ordini.

— Andate a passare un fine settimana a Caracas — mi disse Carvajal un giorno. — Affittate una barca. Prenderete un pescespada.

— Perché?

— Fatelo — fu l’implacabile risposta.

— Mi spiegherete almeno questo?

— Non c’è nessuna spiegazione. Dovete andare a Caracas.

Era completamente assurdo, ma partii per Caracas. Mi lasciai andare e bevvi troppa tequila in compagnia di avvocati di New York che non sapendo che ero il braccio destro di Quinn, lo denigrarono piuttosto volgarmente e ricordarono fino alla nausea i cari, vecchi tempi quando Gottfried sapeva come far filare la feccia. Affascinante. Affittai una barca e presi un pescespada (naturalmente), rompendomi quasi i polsi per non lasciarlo scappare; feci imbalsamare quella maledetta bestiaccia a un prezzo astronomico. Cominciò a passarmi per la testa il pensiero che Carvajal e Sundara potevano essersi messi d’accordo per farmi impazzire, o forse per farmi cadere tra le braccia del più vicino apostolo del Passaggio (stessa cosa?). Più probabilmente, Carvajal, nel seguire il copione, mi rendeva la vita difficile. Accetta qualunque ordine ti giunga dal domani; non fare mai domande.

Io accettavo gli ordini.

Mi lasciai crescere la barba. Comprai dei nuovi abiti alla moda. Raccolsi un’imbronciata sedicenne con un seno enorme a “Times” Square, la ubriacai di cocktail al rum nel covo più elegante dell’Hyatt Regency, vi affittai una stanza per due ore e mi accoppiai rabbiosamente a lei. Passai tre giorni al Columbia Medical Center come soggetto volontario per le ricerche sulla sonopuntura e quando me ne andai avevo tutte le ossa che ronzavano. Andai all’ufficio dei Numeri della mia zona, scommisi mille dollari sul 666 e rimasi pulito perché uscì il 667. Furioso, mi lamentai con Carvajaclass="underline" — Posso anche fare delle pazzie, ma questa mi è costata un po’ troppo. Non avreste potuto darmi il numero esatto?

Lui sorrise in modo evasivo e disse di avermi dato il numero esatto. Evidentemente dovevo perdere. Faceva tutto parte del mio addestramento, diceva. Masochismo esistenziale: accostamento Zen al gioco. Okay. Mai fare delle domande.

La settimana seguente mi fece scommettere altri mille dollari sul 333 e finalmente vinsi, un gruzzolo notevole. Se non altro, c’erano delle piccole compensazioni.

Indossavo i miei abiti ridicoli. Regolarmente mi depilavo la testa. Sopportavo il prurito della barba e dopo un po’ non lo sentii più. Spedivo il sindaco a colazione e a pranzo con una strana varietà di uomini politici potenzialmente influenti in futuro. Con l’aiuto di Dio, seguivo il copione.

Ai primi di ottobre Carvajal mi disse: — E adesso fate domanda di divorzio.

29

Mercoledì, 6 ottobre 1999, 86 giorni prima della fine del secolo. 86 giorni prima dello spostamento della lancetta. “Quando la lancetta si sposterà — aveva detto Quinn nel suo discorso più famoso — facciamo piazza pulita del passato e ricominciamo da capo, ricordando, senza ripeterli, gli errori precedenti.”

Sposare Sundara era stato dunque uno degli errori del passato? E adesso fate domanda di divorzio, mi disse Carvajal, e non mi stava dando un imperativo categorico ma piuttosto mi ricordava impersonalmente la condizione necessaria delle cose future. Così l’inesplicabile futuro divora ineluttabilmente il presente. Perché, a quale fine, a quale scopo? Io l’amavo ancora.

Eppure i nostri rapporti si erano aggravati sempre di più nell’estate e l’eutanasia era l’unica soluzione plausibile. Tutto ciò che di comune un tempo avevamo era crollato in pezzi; Sundara era completamente persa nei ritmi e riti del Passaggio, si era data anima e corpo alle sue assurdità sacre e io stesso ero immerso nei miei sogni di chiaroveggenza; oltre a un appartamento e un letto, non dividevamo più niente.

Penso che avremo fatto l’amore non più di tre volte quell’ultima estate. Fatto l’amore! Qualunque cosa Sundara e io abbiamo fatto, in quelle tre volte di pressioni di carne contro carne, “amore” non è certo il termine giusto; abbiamo fatto sudore, lenzuola spiegazzate, respiro pesante, persino l’orgasmo, ma amore? L’amore era là, incapsulato dentro di me e forse anche dentro di lei, come un prezioso capitale messo da parte.

Tre volte in un mese. Il suo corpo sinuoso non aveva perso nulla della sua bellezza ai miei occhi. Ma in quei giorni mi sembrava che il sesso tra Sundara e me fosse qualcosa di irrilevante, di improprio. Non avevamo niente da offrire l’uno all’altra tranne i nostri corpi e dal momento che tutti gli altri punti di contatto tra noi erano ormai corrosi, quell’unico che ancora rimaneva era diventato peggio che insignificante.

L’ultima volta che facemmo l’amore, dormimmo insieme, ci accoppiammo, godemmo, fu sei giorni prima dell’ordine di Carvajal. Non sapevo che sarebbe stata l’ultima volta, anche se immagino che avrei dovuto saperlo, se fossi stato davvero metà del profeta per cui la gente mi pagava.

Sundara e io eravamo fuori con dei vecchi amici quel venerdì sera, il gruppo a tre Caldecott, Tim, Beth e Corinnie. Tim e io eravamo stati soci dello stesso circolo di tennis molti anni prima, e una volta avevamo vinto un torneo di doppio, cosa che ci aveva legati molto. Quella sera bevemmo parecchio, fumammo ancora di più e portammo avanti una specie di corteggiamento a cinque che sarebbe sicuramente finito a letto, con me, Tim e la bionda Corinne da una parte e Sundara e Beth dall’altra. Ma a un certo punto mi accorsi con sorpresa che Sundara stava mandando chiarissimi segnali nella mia direzione. Era così “partita” da dimenticare che ero suo marito? O era passato talmente tanto tempo dall’ultima volta che io le sembravo una novità tentatrice? Non so. Comunque, il calore della sua improvvisa occhiata ristabilì tra noi una risonanza che presto diventò incandescente; riuscimmo a scusarci senza che i Caldecott si offendessero e corremmo a casa.

Tutto rimase perfetto, il nostro stato d’animo, l’atmosfera, tutto.

Fu un amplesso impeccabile, i nostri corpi si muovevano in sintonia perfetta, nella tradizionale posizione occidentale, e non c’era ragione per cui non avrei potuto andare avanti tutta la notte. Ma naturalmente, non fu un atto d’amore: fu semplicemente una gara atletica, eravamo due discoboli che si muovevano in tandem, ripetendo i riti fissi e preordinati della loro specialità, ma l’amore non aveva proprio niente a che vedere con tutto questo. Così ricevemmo le nostre medaglie d’oro delle Olimpiadi e, dopo la fine, ci trovammo sudati ed esausti.