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Nell’affresco si rispecchia la convinzione di tutti i cristiani, secondo la quale l’autorità spirituale di Roma protesse la città nell’ora disperata, quando gli unni vennero per saccheggiarla e incendiarla. Raffaello vi ha dipinto san Pietro e san Paolo, che scendono dal cielo per conferire maggior forza all’intervento di papa Leone. La sua interpretazione è l’elaborazione della leggenda originale, in cui veniva ricordato solo l’apostolo Pietro… ritto dietro Leone con la spada sguainata. E la leggenda era un’elaborazione di quei pochi fatti che sono pervenuti relativamente inalterati dall’antichità: Leone non aveva con sé i cardinali, e certamente non aveva neppure il fantasma dell’apostolo. Era uno dei tre componenti la delegazione. Gli altri due erano dignitari laici dello stato romano. L’incontro non avvenne — come vorrebbe farci credere la leggenda — alle porte di Roma, bensì nell’Italia settentrionale, non lontano dall’odierna Peschiera.

Non si sa null’altro dell’incontro. Tuttavia Attila, che nessuno aveva mai fermato, non distrusse Roma. Tornò indietro.

Djam Karet. Il campo di linee di forza emesso da un Crocevia dei Quando al centro della parallasse, un campo che aveva pulsato attraverso il tempo e lo spazio e le menti degli uomini per il doppio di diecimila anni. Poi cessò all’improvviso, e l’unno Attila si strinse la testa fra le mani, e la sua mente si contorse come una fune dentro il suo cranio. I suoi occhi divennero vitrei, poi si schiarirono, ed egli trasse un profondo respiro. Poi diede al suo esercito il segnale di tornare indietro. Leone Magno ringraziò Dio e la memoria vivente di Cristo Salvatore. La leggenda aggiunse san Pietro. Raffaello aggiunse san Paolo.

Per il doppio di diecimila anni — Djam Karet — il campo aveva pulsato, e per un breve istante che poteva corrispondere a istanti o anni o millenni, era cessato.

La leggenda non racconta la verità. Più specificamente, non racconta tutta la verità: quarant’anni prima che Attila calasse in Italia, Roma era stata espugnata e saccheggiata dal goto Alarico. Djam Karet. Tre anni dopo la ritirata di Attila, Roma venne presa e saccheggiata di nuovo, questa volta da Genserico, re di tutti i vandali.

C’era una ragione, la sozzura della follia aveva smesso di fluire in ogni luogo e in ogni tempo dalla mente drenata di un drago a sette teste…

Semph, traditore della sua razza, aleggiava davanti alla Concordia. Il suo amico, l’uomo che ora cercava questo flusso finale, Linah, presiedeva l’udienza. Parlò sottovoce, ma eloquentemente, di ciò che aveva fatto il grande scienziato.

— La vasca si stava vuotando; lui mi ha detto: «Perdonami, perché amo gli uomini miei simili. In qualunque tempo fossero, in qualunque tempo siano; ci sono costretto, io lavoro in un campo inumano, e debbo aggrapparmi a questo. Perciò mi perdonerai». E poi si è messo in mezzo.

I sessanta membri della Concordia, un rappresentante per ognuna delle razze che esistevano nel centro, esseri simili a uccelli, e cose azzurre e uomini dalle grosse teste e profumi arancione con ciglia frementi… tutti guardarono Semph. Il corpo e la testa erano gualciti come un sacchetto di carta. Tutti i capelli erano scomposti. Gli occhi erano offuscati, acquosi. Nudo, tremolante, fluttuò leggermente da una parte, e poi una brezza vagabonda, nella sala priva di pareti, lo spinse indietro. Aveva drenato se stesso.

— Chiedo che questa Concordia pronunci una sentenza di flusso finale nei confronti di quest’uomo. Sebbene la sua interposizione sia durata solo pochi istanti, non possiamo sapere quali danni, quali effetti snaturati abbia causato al Crocevia dei Quando. Deduco che il suo intento fosse sovraccaricare il drenaggio e in tal modo renderlo inoperante. Quest’atto, l’atto di una bestia che potrebbe condannare le sessanta razze del centro a un futuro in cui prevalga ancora la follia, è un atto che può venire punito solo con la terminazione.

Sulle rive silenziose di un pensiero, l’uomo di papiro venne portato tra le braccia del suo amico, del suo giustiziere, il Prefetto. Là, nella quiete polverosa dell’appressarsi della notte, Linah depose Semph nell’ombra di un sospiro.

— Perché mi hai fermato? — chiese la grinza che era una bocca.

Linah distolse lo sguardo verso la tenebra.

— Perché?

— Perché qui, nel centro, c’è una possibilità.

— E per loro, tutti loro, là fuori… non ci sarà mai una possibilità?

Linah sedette lentamente, affondando le mani nella nebbia aurea, lasciandola fluire sui suoi polsi e poi nella carne del mondo in attesa. — Se possiamo incominciare qui, se possiamo spingere oltre i nostri confini, allora forse un giorno, chissà quando, potremo raggiungere la fine del tempo con quella piccola possibilità. Sino ad allora, è meglio avere un unico centro dove non vi sia la follia.

Semph parlò più in fretta. La fine avanzava a grandi passi rapidi verso di lui.

— Li hai condannati tutti. La pazzia è un vapore vivente. Una forza. Può essere racchiusa in una bottiglia. Il genio più potente nella bottiglia più facile da stappare. E tu li hai condannati tutti a vivere con essi, per sempre. In nome dell’amore.

Linah emise un suono che non era esattamente una parola, ma lo richiamò.

Semph gli sfiorò il polso con un tremito che era stato una mano. Le dita si fondevano nella mollezza e nel tepore. — Mi dispiace per te, Linah. La tua maledizione è di essere un vero uomo. Il mondo è fatto per coloro che lottano. Tu non hai mai imparato a farlo.

Linah non rispose. Pensava soltanto al drenaggio, che adesso era eterno. Messo in moto e tenuto in moto dalla sua stessa necessità.

— Farai un monumento funebre per me? — chiese Semph.

Linah annuì. — È tradizionale.

Semph sorrise dolcemente. — Allora fallo per loro; non per me. Sono stato io a ideare il veicolo della loro morte, e non ne ho bisogno. Ma scegli uno di loro: uno non molto importante, ma che possa significare tutto per loro, se lo scopriranno e se capiranno. Erigi in mio nome il monumento a quello. Lo farai?

Linah annuì.

— Lo farai? — chiese Semph. Aveva gli occhi chiusi, e non aveva potuto vedere il cenno.

— Sì, lo farò — disse Linah.

Ma Semph non poteva udirlo. Il flusso incominciò e finì, e Linah rimase solo nella conca di silenzio e di solitudine.

La statua venne collocata su un lontano pianeta di una stella lontana, in un tempo che era antico, sebbene non fosse ancora nato. Esisteva nelle menti degli uomini che sarebbero venuti più tardi. O mai.

Ma se fossero venuti, avrebbero compreso che l’inferno era con loro, che vi era un Paradiso che gli uomini chiamavano Paradiso, e che in esso vi era un centro dal quale fluiva tutta la follia; e che entro quel centro, vi era pace.

Tra le macerie di un edificio devastato che era stato una fabbrica di camicie, in quella che era stata Stoccarda, Friedrich Drucker trovò una cassetta multicolore. Reso pazzo dalla fame e dal ricordo di essersi nutrito per settimane di carne umana, l’uomo cercò di strappare il coperchio della cassetta con i moncherini insanguinati delle dita. Quando la cassetta si aprì, alla pressione esercitata su un certo punto, mille cicloni eruppero davanti al volto atterrito di Friedrich Drucker. Cicloni e forme scure, alate, senza volto, che sfrecciarono via nella notte, seguite da un’ultima spira di fumo purpureo che esalava un forte odore di gardenie putrefatte.

Ma se fossero venuti, avrebbero compreso che l’inferno era con loro, che vi era un paradiso che gli uomini chiamavano Paradiso, e che in esso vi era un centro dal quale fluiva tutta la follia; e che entro quel centro, vi era pace.