— Cosa diavolo è, quella roba? — domanda Hunt.
— Ossa di briganti — rispondo, dicendo la verità.
Hunt mi guarda come se la malattia m'avesse sconvolto la mente. Forse ha ragione.
Più tardi usciamo dal terreno paludoso e scorgiamo fuggevolmente un lampo rosso che si muove molto lontano nei campi.
— E quello cos'è? — domanda Hunt, ansioso e speranzoso. Si aspetta, lo so, di vedere gente da un momento all'altro e, subito dopo, la sagoma di un teleporter funzionante.
— Un cardinale. — Dico di nuovo la verità. — Che spara agli uccelli.
Hunt consulta il comlog rovinato. — I cardinali sono uccelli — dichiara.
Annuisco, guardo verso ponente, ma il rosso è scomparso. — E anche ecclesiastici — replico. — Ci avviciniamo a Roma, sa?
Hunt mi guarda storto; per la millesima volta tenta di mettersi in contatto con qualcuno, sulle bande di trasmissione del comlog. Il pomeriggio è silenzioso, a parte il cigolio ritmico delle ruote di legno della vettura e il trillo lontano di qualche uccello canoro. Un cardinale, forse?
Entriamo in Roma mentre il primo rossore della sera tocca le nuvole. La piccola carrozza sobbalza e rumoreggia attraverso la Porta Laterana e quasi subito ci troviamo di fronte il Colosseo, invaso di edera e casa di migliaia di colombi, ma molto più impressionante delle olografie delle rovine: non è all'interno dei sudici confini di una città del dopoguerra circondata da arcologie giganti, ma si staglia contro grappoli di casette e di campi aperti dove la città termina e la campagna inizia. Scorgo in lontananza la Roma vera e propria: una manciata di tetti e di rovine più piccole sui leggendari Sette Colli; ma qui il Colosseo domina.
— Cristo — mormora Leigh Hunt. — Che cos'è?
— Le ossa di briganti — dico lentamente, per paura di un altro attacco della mia terribile tosse.
Proseguiamo con rumore di zoccoli nelle vie deserte della Roma del XIX secolo della Vecchia Terra, mentre la sera cala pesantemente intorno a noi, la luce svanisce e i colombi volano in cerchio sopra le cupole e i tetti della Città Eterna.
— Dov'è, la gente? — mormora Hunt. Sembra spaventato.
— Non qui, perché non è necessaria — rispondo. La mia voce suona aspra e pungente, nella penombra delle vie cittadine. Ora le ruote passano sopra l'acciottolato di un fondo stradale, irregolare quasi quanto la strada sassosa appena lasciata.
— È uno stim-sim? — domanda Hunt.
— Ferma il carro — dico; ubbidiente, il cavallo si ferma. Indico una grossa pietra accanto al canale di scolo. Mi rivolgo a Hunt: — La prenda a calci.
Mi guarda, accigliato, ma smonta, si accosta alla pietra e le molla un calcione. Altri colombi si alzano rapidamente nel cielo, dalle torri campanarie e dall'edera, spaventati dalle imprecazioni di Hunt.
— Come il dottor Johnson, anche lei ha dimostrato la realtà delle cose — dico. — Non è stim-sim, né sogno. O, per meglio dire, non più di quanto il resto della nostra vita sia sogno.
— Perché ci hanno portati qui? — domanda l'aiutante del PFE, con un'occhiata al cielo, come se gli dèi stessi siano in ascolto appena al di là delle barriere color pastello delle nuvole della sera. — Cosa vogliono?
"Vogliono che io muoia" penso; capisco quanto sia vera la risposta, con una sorpresa simile a un pugno in pieno petto. Respiro lentamente per evitare un attacco di tosse, perché sento il catarro ribollirmi in gola. "Vogliono che io muoia e che lei stia a guardare."
La giumenta riprende la lunga tirata, gira a destra nella viuzza seguente, poi di nuovo a destra in un viale ampio e pieno di ombre e di echi del nostro passaggio; infine, si ferma all'inizio di una grande scalinata.
— Siamo arrivati — dico, scendendo a fatica dalla carrozza. Ho crampi alle gambe, dolore al petto, natiche indolenzite. Nella mente mi passa l'inizio di un'ode satirica sui piaceri dei viaggi.
Hunt scende a terra, rigido quanto me; si ferma in cima alla maestosa scalinata divisa in due ali, incrocia le braccia, la fissa con odio, come se fosse una trappola o un'illusione. — Che posto è questo, esattamente, signor Severn?
Indico la piazza ai piedi della scalinata. — Piazza di Spagna — dico. A un tratto trovo strano che Hunt mi chiami Severn. Questo nome ha smesso di essere il mio quando abbiamo varcato la Porta Laterana. O, meglio, il mio vero nome a un tratto è tornato mio.
— Prima che trascorrano molti anni — dico — questi saranno chiamati gli Scalini Spagnoli. — Mi siedo sui gradini dell'ala di destra. Una vertigine improvvisa mi fa barcollare; Hunt si affretta a sorreggermi per il braccio.
— Non può camminare — dice. — Sta troppo male.
Indico un edificio vecchio e macchiato, che forma un muro rispetto all'ala opposta dell'ampia scala e fronteggia la piazza. — Non è distante, Hunt. Ecco la nostra destinazione.
L'aiutante di Gladstone guarda, corrucciato, l'edificio. — E cosa sarebbe? Perché dovremmo andarci? Cosa andiamo a farci?
Non posso fare a meno di sorridere al suo inconsapevole uso della rima, lui che è il meno poetico degli uomini. All'improvviso immagino di stare seduto per lunghe notti nel guscio buio di un edificio e insegnargli come migliorare una simile tecnica con cesure maschili o femminili, o le gioie di alternare il giambo con il pirricchio non accentato, o l'indulgenza verso se stessi del frequente spondeo.
Tossisco, continuo a tossire, non la smetto finché il sangue non mi schizza il palmo e la camicia.
Hunt mi aiuta a scendere gli scalini, ad attraversare la piazza dove la fontana a forma di nave del Bernini gorgoglia nel crepuscolo, e poi, seguendo le mie indicazioni, mi guida al rettangolo nero del vano della porta… il n. 26 di Piazza di Spagna. Senza volerlo, penso alla Divina Commedia di Dante; mi pare quasi di vedere, scolpite sopra il freddo architrave, le parole: Lasciate ogni speranza, voi ch'entrate.
Sol Weintraub rimase davanti all'ingresso della Sfinge e agitò il pugno contro l'universo intero, mentre la notte cadeva e le Tombe brillavano del fulgore dovuto all'apertura e sua figlia non tornava.
Non tornava.
Lo Shrike l'aveva presa, aveva tenuto nel palmo di acciaio il corpicino appena nato e si era ritirato nello splendore che spingeva via Sol, ancora, come un terribile vento luminoso proveniente dagli abissi del pianeta. Sol premette contro l'uragano di luce, ma fu respinto come da un campo di contenimento impazzito.
Il sole di Hyperion era tramontato e un vento gelido soffiava dalle lande, spinto da un fronte di aria fredda che dalle montagne scivolava sul deserto e poi verso sud; Sol si girò a fissare la polvere vermiglia che turbinava nell'intensa luce delle Tombe che si aprivano.
Le Tombe si aprivano!
Sol socchiuse gli occhi per proteggerli dal bagliore e guardò nella valle, dove le altre Tombe scintillavano come fuochi fatui verde chiaro dietro la cortina di polvere spinta dal vento. Lunghe ombre guizzavano sul fondovalle, mentre in alto le nuvole erano prosciugate degli ultimi colori del tramonto e la notte giungeva col gemito del vento.
Qualcosa si muoveva nel vano di ingresso del secondo edificio, la Tomba di Giada. Sol scese barcollando i gradini della Sfinge, lanciò un'occhiata al vano in cui lo Shrike era scomparso portandosi via sua figlia, poi corse al di là delle zampe della Sfinge e barcollò lungo il sentiero sferzato dal vento, diretto alla Tomba di Giada.
Qualcosa si mosse lentamente dall'ovale di ingresso e si stagliò contro la luce emanata dalla Tomba; ma Sol non riuscì a dire se fosse una creatura umana o no, lo Shrike o no. Se era lo Shrike, l'avrebbe afferrato a mani nude, l'avrebbe scosso finché non gli avesse restituito la figlia o uno dei due non fosse morto.