Non era lo Shrike.
Ora Sol vedeva che la sagoma era umana. La persona barcollò, si appoggiò allo stipite della Tomba di Giada, come se fosse ferita o stanca.
Era una giovane donna.
Sol pensò a Rachel, lì, in quel posto, più di mezzo secolo standard prima, la giovane archeologa che studiava quei manufatti e mai avrebbe immaginato quale sorte l'attendesse, sotto forma del morbo di Merlino. Sol si era sempre raffigurato la salvezza di sua figlia: sconfitta la malattia, la piccina sarebbe cresciuta di nuovo normalmente, sarebbe ridiventata una donna. E se invece fosse tornata come la Rachel di ventisei anni che era entrata nella Sfinge?
Sol si sentì rombare il sangue nelle orecchie, con tanta intensità da cancellare il rumore del vento che infuriava intorno a lui. Agitò il braccio in direzione della figura, ora quasi oscurata dalla tempesta di polvere.
La giovane donna gli rispose allo stesso modo.
Sol corse per altri venti metri, si fermò a trenta dalla Tomba, gridò: — Rachel! Rachel!
La giovane donna stagliata nella luce ruggente si spostò dal vano della porta, si portò le mani al viso, gridò qualcosa che andò perso nel vento, cominciò a scendere i gradini.
Sol corse, inciampò nei sassi quando smarrì il sentiero, barcollò alla cieca nella valle, non badò al dolore quando col ginocchio urtò una roccia bassa, ritrovò il sentiero, arrivò alla base della Tomba di Giada, incontrò la donna proprio mentre lei usciva dal cono di luce in espansione.
Appena Sol fu alla base della scala, la donna cadde; lui l'afferrò al volo, la distese gentilmente per terra, mentre la sabbia gli frustava la schiena e le maree del tempo turbinavano intorno a loro in riflussi di vertigine e di déjà vu.
— Sei proprio tu! — disse la donna. Sollevò la mano a toccare la guancia di Sol. — Sei reale! Sono tornata.
— Sì, Brawne — disse Sol, cercando di mantenere ferma la voce; le scostò dal viso i ricci arruffati. La strinse con fermezza, con un braccio sul ginocchio, sorreggendole la testa e chinandosi in modo da ripararla meglio dal vento e dalla sabbia. — Tutto a posto, Brawne — disse piano, con occhi lucidi di lacrime di delusione che non avrebbe versato. — Tutto a posto. Sei tornata.
Meina Gladstone salì le scale della cavernosa Sala di Guerra e uscì nel corridoio dove larghe strisce di perspex massiccio offrivano la vista dell'altopiano di Tharsis da monte Olympus. Molto più in basso pioveva e da quella posizione, quasi a dodici chilometri di altezza nel cielo marziano, Gladstone vedeva il balenio di fulmini e le cortine di elettricità statica, mentre la tempesta si trascinava sulle alte steppe. Sedeptra Akasi uscì nel corridoio e restò in silenzio a fianco del PFE.
— Ancora nessuna notizia di Leigh o di Severn? — domandò Gladstone.
— Nessuna — rispose Akasi. Il viso della giovane nera era illuminato dalla luce livida del sole del Sistema Patrio in alto e dal gioco di fulmini in basso. — Le autorità del Nucleo dicono che forse c'è stato un cattivo funzionamento del teleporter.
Gladstone sorrise senza calore. — Sì. Riesci a ricordare un cattivo funzionamento di teleporter in vita tua, Sedeptra? In un qualsiasi punto della Rete?
— No, signora.
— Il Nucleo non ritiene necessario usare sottigliezza. Loro credono di poter rapire chi vogliono senza essere ritenuti responsabili. Sono convinti che abbiamo troppo bisogno di loro, in questa situazione estrema. E sai una cosa, Sedeptra?
— Cosa?
— Hanno ragione. — Gladstone scosse la testa e si girò di nuovo verso la lunga discesa che portava nella Sala di Guerra. — Tra meno di dieci minuti gli Ouster accerchieranno Bosco Divino. Scendiamo a unirci agli altri. Il mio incontro con il consulente Albedo è programmato al termine di questa riunione?
— Sì, Meina. Non credo… voglio dire, alcuni di noi ritengono che sia troppo pericoloso affrontarli in modo così diretto.
Gladstone esitò, sulla soglia della Sala di Guerra. — Perché? — domandò, stavolta con un sorriso sincero. — Pensate che il Nucleo mi faccia scomparire, come ha fatto con Leigh e Severn?
Akasi aprì bocca, ci ripensò, allargò le mani.
Gladstone le toccò la spalla. — Se lo fanno, Sedeptra, sarà un atto misericordioso. Ma penso che non lo faranno. Le cose sono andate troppo avanti: secondo loro, l'azione di un singolo individuo non potrà più cambiare il corso degli eventi. — Gladstone ritrasse la mano, lasciò morire il sorriso. — E forse hanno ragione.
Senza dire altro, le due donne raggiunsero il cerchio di militari e politici in attesa.
— Il momento si avvicina — disse la Vera Voce dell'Albero Mondo Sek Hardeen.
Padre Paul Duré fu strappato alle fantasticherie. Nell'ultima ora, la disperazione e l'esasperazione si erano attenuate, prima in rassegnazione, poi in qualcosa di simile al piacere, al pensiero di non dover più fare scelte, di non avere altri obblighi. Duré era rimasto seduto, in socievole silenzio, con il capo della Confraternita Templare, a guardare il tramondo del sole di Bosco Divino e la proliferazione di stelle e le luci nella notte che stelle non erano.
Si era meravigliato che il Templare rimanesse isolato dalla sua gente, in quel momento cruciale; ma riflettendo sulle concezioni religiose dei Templari, capì che i Seguaci del Muir avrebbero accolto in solitudine un simile momento di distruzione potenziale, sulle piattaforme più sacre e nei recessi ombrosi più segreti dei loro alberi più sacri. E gli occasionali commenti sottovoce di Hardeen, da sotto il cappuccio della tonaca, rivelarono a Duré che la Vera Voce era in contatto con i colleghi Templari, tramite comlog o impianti.
Eppure, era un modo tranquillo di attendere la fine del mondo, seduti a grande altezza sul più alto albero vivente della galassia conosciuta, ascoltando la tiepida brezza della sera far frusciare un milione di acri di foglie e guardando le stelle sfavillare e le lune gemelle correre nel cielo di velluto.
— Abbiamo chiesto a Gladstone e alle autorità dell'Egemonia di non opporre resistenza, di non fare entrare nel sistema navi da guerra della FORCE — disse Sek Hardeen.
— Sarebbe saggio? — domandò Duré. Poco prima Hardeen gli aveva detto qual era stata la sorte di Porta del Paradiso.
— La flotta della FORCE non è ancora abbastanza organizzata da opporre seria resistenza — rispose il Templare. — Almeno così il nostro mondo ha qualche probabilità di essere trattato come non belligerante.
Padre Duré si protese per guardare meglio l'alta figura nelle ombre della piattaforma. Tenui fotoglobi, sui rami in basso, erano l'unica illuminazione, a parte la luce delle stelle e delle lune. — Eppure ha accolto con piacere questa guerra. Ha aiutato le autorità del Culto Shrike a farla scoppiare.
— No, Duré. Non la guerra. La Confraternita sapeva di dover partecipare al Grande Cambiamento.
— Ossia?
— Il momento in cui la razza umana accetterà il ruolo di parte dell'ordine naturale dell'universo e smetterà di esserne il cancro.
— Cancro?
— Un'antica malattia che…
— Sì — lo interruppe Duré. — So cos'era il cancro. Come mai lo paragona alla razza umana?
Sek Hardeen mostrò una traccia di agitazione nella voce perfettamente modulata e con una lieve cadenza. — Ci siamo diffusi nella galassia come cellule cancerose in un corpo vivente. Ci moltiplichiamo senza il minimo riguardo per le altre forme di vita che devono morire o essere messe da parte perché possiamo riprodurci e di prosperare. Sradichiamo le forme di vita intelligente in competizione con noi.
— Per esempio?
— Per esempio, gli empatici Seneschai di Hebron. I centauri di palude di Garden. Su Garden, Duré, abbiamo distrutto l'intera ecologia, perché poche migliaia di coloni umani potessero vivere dove un tempo prosperavano milioni di forme di vita indigene.