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Dopo un poco odo rumori: il gorgoglio irritante della fontana del Bernini nella piazza, fuori; colombi che svolazzano e tubano sugli aggetti sopra la finestra; Leigh Hunt che si lamenta piano nel sonno. Ma al di sopra e al di sotto di questi rumori, odo qualcosa di più furtivo, di meno reale, ma infinitamente più minaccioso.

Qualcosa di grosso viene da questa parte. Mi sforzo di vedere nella penombra pastello: qualcosa si muove appena al di là del campo visivo. So che quella cosa conosce il mio nome. So che tiene sul palmo la mia vita e nell'altro pugno la mia morte.

Non c'è nascondiglio, in questo spazio al di là dello spazio. Non posso fuggire. Il canto di sirena del dolore continua a salire e scendere, dal mondo che mi sono lasciato alle spalle… il dolore quotidiano di ogni persona in qualsiasi luogo, il dolore di chi soffre a causa della guerra appena scoppiata, il dolore specifico e focalizzato di chi è appeso al terribile albero dello Shrike e, peggio di tutto, il dolore che provo per i pellegrini e quegli altri la cui vita e i cui pensieri adesso condivido e a causa loro.

Varrebbe la pena che mi precipitassi ad accogliere quest'ombra di distruzione che si avvicina, se mi garantisse la libertà da questo canto di dolore.

— Severn! Severn!

Per un secondo penso di essere io a chiamare, proprio come ho già fatto in queste stanze, come ho chiamato Joseph Severn, la notte in cui dolore e febbre infuriavano oltre la mia capacità di sopportazione. E lui era sempre lì: Severn, con la sua lentezza goffa e benintenzionata, con quel sorriso gentile che spesso avrei voluto cancellargli dal viso con qualche meschinità o qualche commento sgarbato. È difficile essere benevoli, quando la morte si avvicina. Ho vissuto una vita di una certa generosità… perché allora il mio destino era di continuare in quel ruolo, quando ero io a soffrire, quando ero io a tossire e sputare pezzi di polmone in fazzoletti macchiati di sangue?

— Severn!

Non è la mia voce. Hunt mi scuote, mi chiama Severn. Capisco che è convinto di chiamare me. Gli scosto le mani e mi lascio sprofondare di nuovo nei cuscini. — Cosa c'è? Cosa succede?

— Si lamentava — dice l'aiutante di Gladstone. — Gridava.

— Un incubo. Tutto qui.

— Di solito i suoi sono più di semplici sogni — dice Hunt. Lancia un'occhiata alla stanzetta, illuminata ora dalla lampada che lui stesso ha portato. — Che posto orribile, Severn.

Cerco di sorridere. — Mi costa ventotto scellini al mese. Sette scudi. Un furto da briganti di strada.

Hunt si acciglia. La luce cruda fa sembrare più profonde del solito le sue rughe. — Stia a sentire, Severn — dice. — So che lei è un cìbrido. Gladstone mi ha detto che era la personalità ricuperata di un poeta di nome Keats. Ora è chiaro che tutto questo… — indica con gesto disperato la stanza, le ombre, i rettangoli delle finestre, l'alto letto — tutto questo ha a che fare con lei. Ma come? Quale gioco il Nucleo gioca, qui?

— Non lo so — rispondo sinceramente.

— Ma conosce questo posto?

— Oh, sì — dico con sentimento.

— Parli — supplica Hunt; e a questo punto è il suo ritegno a non chiedere, quanto l'ansia della supplica, a farmi decidere a dirgli tutto.

Gli parlo del poeta John Keats, della sua nascita nel 1795, della sua vita breve e spesso infelice, della morte per "consunzione" nel 1821, a Roma, lontano dagli amici e dall'unico amore. Gli parlo della mia programmata "guarigione" in questa stessa stanza, della mia decisione di assumere il nome di Joseph Severn — l'amico pittore rimasto con Keats fino alla fine — e del mio breve periodo nella Rete, ad ascoltare, a guardare, condannato a sognare la vita dei Pellegrini allo Shrike su Hyperion e di altri.

— Sogni? — dice Hunt. — Significa che anche adesso sogna quel che accade nella Rete?

— Sì. — Gli parlo dei sogni su Gladstone, della distruzione di Porta del Paradiso e di Bosco Divino, delle immagini confuse di Hyperion.

Hunt passeggia avanti e indietro nella stanzetta, getta sulle pareti scabre una lunga ombra. — Può mettersi in contatto con loro?

— Con quelli che sogno? Con Gladstone? — Rifletto un secondo. — No.

— Ne è certo?

Provo a spiegarglielo. — Non faccio parte dei sogni, Hunt. Non ho… voce, presenza… non posso mettermi in contatto con quelli che sogno.

— Ma a volte sogna ciò che pensano?

Mi rendo conto che è vero. Vicino alla verità. — Intuisco quel che sentono…

— Allora non può lasciare una traccia nella loro mente… nella loro memoria? Far sapere loro dove ci troviamo?

— No.

Hunt crolla sulla poltrona ai piedi del letto. A un tratto sembra vecchissimo.

— Leigh — dico — anche se potessi comunicare con Gladstone o con gli altri… ma non posso… quale vantaggio ne avremmo? Le ho detto che questa è una riproduzione della Vecchia Terra, nella Nube di Magellano. Anche alle velocità da balzo quantico del motore Hawking, passerebbero secoli, prima che qualcuno ci raggiungesse.

— Potremmo avvisarli — dice Hunt, con voce così stanca da sembrare quasi astiosa.

— Avvisarli di cosa? Tutti i peggiori incubi di Gladstone si stanno avverando. Crede che ora si fidi del Nucleo? Proprio per questo il Nucleo ha potuto rapirci in maniera così clamorosa. Gli eventi si susseguono troppo in fretta perché Gladstone o qualsiasi altro nell'Egemonia possa intervenire.

Hunt si strofina gli occhi, unisce le dita. Il suo sguardo non è molto amichevole. — Lei è davvero la personalità ricuperata di un poeta? Non rispondo.

— Reciti una poesia. Ne crei una.

Scuoto la testa. È tardi, tutt'e due siamo stanchi e spaventati, il cuore non si è ancora calmato per l'incubo che era più di un incubo. Non lascerò che Hunt mi faccia arrabbiare.

— Forza — dice. — Mi mostri di essere la nuova versione migliorata di Bill Keats.

— John Keats — lo correggo, calmo.

— Fa lo stesso. Andiamo, Severn. O John. O come diavolo dovrei chiamarla. Reciti una poesia.

— E va bene — dico, fissandolo negli occhi. — Ascolti.

C'era un ragazzo cattivo ed era cattivo davvero perché nulla faceva se non scribacchiare poesie… prese in mano un calamaio per far paio con la penna come benna nell'altra e lontano con chiasso corse via ai monti e fonti e fantasmi e poste e streghe e fosse, e scrisse col manto se il tempo era freddo (ah, la gotta) e senza se il tempo era caldo. Oh, l'incanto quando scelse d'andar sempre dritto a nord a nord d'andar sempre dritto a nord!

— Non so — dice Hunt. — Non mi sembrano versi che avrebbe scritto un poeta la cui fama è durata mille anni.

Scrollai le spalle.

— Stanotte sognava Gladstone? È accaduto qualcosa che l'ha fatta piangere?

— No. Non sognavo Gladstone. Era un… un incubo vero, tanto per cambiare.