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Se non possiamo andare indietro e non dobbiamo andare avanti, ci fermeremo qui per un poco. Forse passerà qualcuno.

Martin Sileno sbarrò gli occhi. Brawne Lamia si girò di scatto, vide lo Shrike librato a mezz'aria, sopra e dietro di lei.

— Merda santa — mormorò in tono reverente.

Nel Palazzo dello Shrike, gradinate di corpi addormentati si allontanarono nel buio; ogni persona, tranne Martin Sileno, era sempre collegata mediante il cordone ombelicale pulsante all'albero di spine, alla macchina IF e a Dio sa cos'altro.

Quasi a dimostrare il suo potere in quel luogo, lo Shrike aveva smesso di salire, aveva spalancato le braccia, era volato in alto e ora si librava a cinque metri dal gradino di pietra dove Brawne era accucciata a fianco di Martin Sileno.

— Fa' qualcosa — bisbigliò Sileno. Il poeta, non più collegato al cordone di shunt neurale, era ancora troppo debole per tenere alzata la testa.

— Suggerimenti? — disse Brawne, ma la domanda coraggiosa fu un poco rovinata dal tremito nella voce.

— Abbi fede — disse una voce proveniente dal basso. Brawne cambiò posizione per guardare di sotto.

Molto più in basso c'era la giovane donna che aveva riconosciuto come Moneta nella tomba di Kassad.

— Aiuto! — gridò Brawne.

— Abbi fede — disse Moneta. E sparì. Lo Shrike non si era distratto. Abbassò le mani e si mosse in avanti come se camminasse su solida pietra, non in aria.

— Merda — mormorò Brawne.

— Idem — gracchiò Martin Sileno. — Dalla padella alla merdosa brace.

— Sta' zitto — lo rimbeccò Brawne. Poi, quasi tra sé: — Fede in che cosa? In chi?

— Nello Shrike del cazzo che ci uccida o che ci infilzi tutt'e due in quell'albero di merda — ansimò Sileno. Riuscì a muoversi quel tanto che bastava per afferrarle il braccio. — Meglio morire che tornare sull'albero, Brawne.

Brawne gli toccò brevemente la mano e si alzò: cinque metri di aria la separavano dallo Shrike.

Fede? Brawne protese il piede, tastò il vuoto; per un secondo chiuse gli occhi. Li riaprì, quando le parve di toccare un gradino solido.

Sotto il piede c'era solo aria.

Fede? Brawne appoggiò il peso del corpo e mosse un passo; traballò, prima di mettere giù l'altro piede.

Lei e lo Shrike si fronteggiarono, dieci metri al di sopra del pavimento di pietra. La creatura parve rivolgerle un sogghigno, mentre spalancava le braccia. Il carapace brillò opacamente nella luce fioca. Gli occhi rossi erano luminosissimi.

Fede? Brawne, sentendo il flusso improvviso di adrenalina, avanzò sull'invisibile gradino, si raddrizzò e si mosse nell'abbraccio dello Shrike.

Sentì le dita affilate tagliare stoffa e pelle, mentre il mostro l'attirava a sé, verso la lama ricurva che sporgeva dal petto, verso le fauci spalancate e le file di denti di acciaio. Piantata a mezz'aria, Brawne si protese, appoggiò di piatto contro il petto dello Shrike la mano sana, sentì la freddezza del metallo ma anche un fiotto di calore che la percorreva, l'attraversava, sgorgava da lei.

Le lame non penetrarono oltre lo strato di pelle. Lo Shrike impietrì, come se il flusso di energia temporale che li circondava si fosse mutato in un grumo di ambra.

Brawne spinse.

Lo Shrike rimase completamente immobile, divenne friabile; il bagliore di acciaio lasciò posto a uno splendore trasparente di cristallo, alla luminosità del vetro.

Brawne rimase a contatto con una statua di vetro alta tre metri. Nel petto di questo Shrike, dove forse c'era il cuore, qualcosa che pareva una grande falena nera agitò contro il vetro ali fuligginose.

Brawne inspirò a fondo e spinse ancora. Lo Shrike scivolò all'indietro sull'invisibile piattaforma, barcollò e cadde. Brawne si chinò per evitare le braccia che la cingevano, sentì la giacca strapparsi quando le lame delle dita, ancora acuminate, si impigliarono nella stoffa e la lacerarono, mentre il mostro rotolava; poi anche lei barcollò, agitò le braccia per mantenere l'equilibrio. Lo Shrike di vetro roteò una volta e mezzo nell'aria, colpì il pavimento e si fracassò in migliaia di schegge frastagliate.

Brawne girò su se stessa, cadde in ginocchio sull'invisibile passerella, strisciò verso Martin Sileno.

Nell'ultimo mezzo metro la fede le mancò: il supporto invisibile smise semplicemente di esistere, Brawne cadde a corpo morto, urtò la caviglia contro il bordo del gradino di pietra ed evitò di precipitare solo afferrandosi al ginocchio di Sileno.

Imprecando per il dolore alla spalla, al polso spezzato, alla caviglia gonfia, alle mani e alle ginocchia escoriate, si tirò al sicuro accanto a Sileno.

— Evidentemente c'è stato un ritorno alle stronzate magiche, durante la mia assenza — disse Martin Sileno, con voce rauca. — Ce la filiamo subito, oppure hai intenzione di camminare anche sull'acqua, per fare il bis?

— Sta' zitto — lo rimbeccò Brawne, scossa. Le due parole parvero quasi affettuose.

Dopo un breve riposo, scoprì che il modo più facile per portare il poeta ancora debolissimo giù dalla gradinata sul pavimento cosparso di schegge di vetro era metterselo in spalla. All'ingresso, Martin le batté poco cerimoniosamente il pugno sulla schiena e disse: — E re Billy e gli altri?

— Dopo — ansimò Brawne. Uscì nella luce che precede l'alba.

Aveva percorso a passi malfermi due terzi della valle, con Sileno sul dorso come un fagotto di panni da lavare, quando il poeta disse: — Brawne, sei ancora incinta?

— Sì — rispose lei, augurandosi che fosse vero, dopo le fatiche della giornata.

— Vuoi che ti porti io?

— Ma taci — replicò lei. Seguì il sentiero intorno alla Tomba di Giada.

— Guarda — disse Martin Sileno, torcendosi per puntare il dito anche se pendeva quasi a testa in giù.

Nella luce del mattino Brawne vide che la nave color ebano del Console si trovava sull'altura all'ingresso della valle. Ma non era la nave, quello che il poeta indicava.

Sol Weintraub si stagliava contro il bagliore dell'ingresso della Sfinge. Teneva le braccia alzate.

Qualcuno o qualcosa usciva dal bagliore.

Sol la vide per primo. Una figura che camminava nel torrente di luce e di tempo liquido che fluiva dalla Sfinge. Una donna, vide, mentre la figura si stagliava contro il portale luminoso. Una donna che reggeva qualcosa.

Una donna che reggeva un neonato.

Rachel uscì… Rachel come Sol l'aveva vista l'ultima volta da ragazza in piena forma in partenza per una missione archeologica su un pianeta chimato Hyperion, Rachel sui venticinque anni, forse anche un po' più anziana, adesso… ma Rachel, senza alcun dubbio, Rachel con la frangia di corti capelli castani, le guance arrossate come sempre le accadeva sotto la spinta di entusiasmi nuovi, il sorriso dolce, quasi tremulo adesso, e gli occhi… quegli enormi occhi verdi con macchioline marrone appena visibili… quegli occhi fissi su Sol.

Rachel reggeva Rachel. La neonata si agitò con il viso contro la spalla della giovane donna, aprendo e chiudendo le manine, quasi fosse indecisa se piangere o meno.

Sol rimase stordito. Cercò di parlare, non ci riuscì, provò ancora. — Rachel — mormorò.

— Papà — disse la giovane. Avanzò di un passo, col braccio libero circondò lo studioso, girandosi un poco per non schiacciare fra loro due la piccina.

Sol baciò sua figlia adulta, la strinse a sé, annusò il profumo di pulito dei capelli, sentì la ferma realtà della donna; poi prese in braccio la neonata e ne sentì il brivido, quando la piccina inspirò prima di mettersi a piangere. La Rachel che lui aveva portato su Hyperion era al sicuro fra le sue braccia, piccola, col visetto rosso tutto grinze, mentre tentava di mettere a fuoco il viso del padre, con occhi che si muovevano a caso. Sol le sorresse la testolina e l'attirò più vicino, scrutò per un istante il visetto, prima di girarsi verso la giovane donna.