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Negli ultimi mesi Brawne aveva alloggiato al Cicero, in una delle camere più ampie del terzo piano dell'ala vecchia, mentre Stan Leweski ricostruiva e ampliava le sezioni danneggiate del leggendario edificio. «Perdio, non ho bisogno dell'aiuto di donne incinte! » gridava Stan, ogni volta che Brawne si offriva di dargli una mano; ma invariabilmente Brawne finiva per fare qualche lavoretto, mentre Leweski borbottava e brontolava. Se pure incinta, Brawne era sempre una lusiana e i muscoli non le si erano certo atrofizzati per una permanenza di qualche mese su Hyperion.

Quella mattina Stan l'aveva accompagnata alla torre di ormeggio e l'aveva aiutata a portare il bagaglio e il pacchetto per il Console. Poi il proprietario del Cicero aveva dato anche a lei un regalino. «È un viaggio maledettamente noioso, in quel territorio dimenticato da Dio» aveva brontolato. «Devi avere qualcosa da leggere, no?»

Il regalo era una riproduzione dell'edizione del 1817 delle Poesie di John Keats, rilegata in pelle dallo stesso Leweski.

Brawne aveva messo in imbarazzo quell'uomo grande e grosso e divertito i presenti stringendolo in un abbraccio da fargli scricchiolare le costole. «Basta, maledizione» aveva brontolato Leweski, massaggiandosi il fianco. «Ricorda a quel Console che voglio vedere qui la sua indegna pellaccia, prima di lasciare a mio figlio questa indegna taverna. Digli così, d'accordo?»

Brawne aveva annuito e con gli altri passeggeri aveva agitato il braccio in segno di saluto a chi era venuto ad augurare buon viaggio. E aveva continuato, dalla balconata, mentre l'aeronave toglieva gli ormeggi, scaricava la zavorra e si muoveva pesantemente sopra i tetti.

Ora, mentre la nave si lasciava indietro i sobborghi e virava a ovest per seguire il corso del fiume, Brawne vide chiaramente per la prima volta la vetta della montagna meridionale dove il viso di re Billy il Triste rimuginava ancora sopra la città. C'era una recente cicatrice di dieci metri, che sbiadiva lentamente alle intemperie, sulla guancia di Billy, dove una lancia laser l'aveva colpita durante la battaglia.

Ma fu la scultura più grande sulla parete nordest della montagna ad attirare l'attenzione di Brawne. Anche con i moderni strumenti da taglio presi in prestito dalla FORCE, il lavoro era lento e il grande naso aquilino, le folte sopracciglia, la bocca larga e gli occhi tristi e intelligenti cominciavano solo ora a essere riconoscibili. Molti profughi dell'Egemonia abbandonati su Hyperion si erano opposti al fatto che le sembianze di Meina Gladstone fossero aggiunte alla montagna, ma Rithmet Corber III, pronipote dello scultore che vi aveva creato il viso di re Billy il Triste (e, incidentalmente, proprietario della montagna), aveva risposto, con la massima diplomazia possibile: «Andate a fare in culo» e aveva continuato il lavoro. Ancora un anno, forse due, e avrebbe terminato.

Brawne sospirò, si massaggiò il ventre ingrossato — un gesto che aveva sempre odiato, nelle donne in gravidanza, ma che ora trovava impossibile evitare — e si diresse goffamente a una poltrona sul ponte panoramico. "Se è così grossa a sette mesi, quanto sarà, a nove?" si disse. Diede un'occhiata alla grande sagoma ricurva e gonfia del dirigibile e sussultò.

Il viaggio dell'aeronave, con buoni venti di coda, richiese solo venti ore. Brawne dormicchiò per parte del viaggio, ma trascorse quasi tutto il tempo a guardare il ben noto paesaggio scorrere in basso.

A metà mattino oltrepassarono le chiuse Karla; Brawne sorrise e diede un colpetto al pacco per il Console. Nel tardo pomeriggio si avvicinarono al porto fluviale Naiade e da tremila piedi di altezza Brawne guardò una vecchia chiatta passeggeri trascinata su per il fiume da mante che lasciavano la tipica scia a V. Si chiese se per caso non fosse proprio la Benares.

Volarono sopra il Bordo, mentre nel salottino superiore servivano la cena, e inziarono la traversata del mare di Erba, proprio quando il tramonto dava colore alla steppa smisurata e milioni di steli s'increspavano alla stessa brezza che teneva in volo l'aeronave. Brawne prese il caffè e si sistemò nella sua poltrona preferita, sulla balconata; spalancò la finestra e guardò scorrere il mare di Erba, simile al panno di un tavolo da biliardo, mentre la luce si affievoliva. Un attimo prima che sul ponte si accendessero le lampade, fu ricompensata dallo spettacolo di un carro a vela che bordeggiava da nord a sud, con le lanterne che oscillavano a prua e a poppa. Brawne si sporse e udì con chiarezza il rombo della grande ruota e lo schiocco della vela di fiocco, mentre il carro virava con forza per cambiare rotta.

Nello scompartimento il letto era pronto, quando Brawne risalì a mettersi in vestaglia; ma dopo la lettura di alcune poesie, tornò sul ponte panoramico e vi rimase fino all'alba, sonnecchiando in poltrona e gustando il fresco profumo di erba che proveniva dal basso.

Si fermarono a Riposo del Pellegrino quanto bastava a fare provvista di cibo fresco e di acqua, rinnovare la zavorra e cambiare equipaggio, ma Brawne non scese a fare due passi. Intorno alla stazione della funivia si vedevano le luci di lavoro; quando infine il viaggio riprese, l'aeronave parve seguire la fila di torri di sostegno dei cavi che s'inoltrava nella Briglia.

Era ancora buio, quando attraversarono le montagne; uno steward girò a chiudere le finestre per pressurizzare gli scompartimenti, ma Brawne scorse ancora di sfuggita le vetture della funivia passare da picco a picco fra le nuvole più in basso e le luccicanti distese di ghiaccio sotto la luce delle stelle.

Poco prima dell'alba sorvolarono Castel Crono, le cui pietre emanavano ben poco senso di calore anche nella luce rosata. Poi comparve il deserto, a sinistra la Città dei Poeti brillò di bianco e il dirigibile scese verso la torre di ormeggio, in fondo al lato orientale dello spazioporto.

Brawne non si era aspettata che qualcuno venisse ad accoglierla. Tutti i suoi conoscenti pensavano che avrebbe fatto il volo nello skimmer di Theo Lane, nel tardo pomeriggio. Ma Brawne aveva ritenuto che l'aeronave fosse il modo giusto per viaggiare da sola con i propri pensieri. E aveva avuto ragione.

Ma ancora prima che il cavo di ormeggio si tendesse e che calassero la rampa, Brawne scorse nella piccola folla il viso del Console. Accanto a lui c'era Martin Sileno, che corrugava la fronte e socchiudeva gli occhi nella poco familiare luce del mattino.

— Quel maledetto Stan — brontolò Brawne, ricordando che adesso i collegamenti a microonde funzionavano e in orbita c'erano satelliti per telecomunicazioni.

Il Console l'accolse con un abbraccio. Martin Sileno sbadigliò, le strinse la mano e disse: — Non potevi trovare un'ora più scomoda per arrivare, vero?

La sera ci fu una festa. Era qualcosa di più della partenza del Console il mattino dopo… gran parte della flotta della FORCE tornava indietro e anche una parte considerevole dello Sciame Ouster sarebbe andato via. Una decina di navette ingombravano il piccolo campo accanto alla nave del Console, mentre gli Ouster rendevano l'ultima visita alle Tombe del Tempo e gli ufficiali della FORCE si fermavano per l'ultima volta alla tomba di Kassad.

La stessa Città dei Poeti ora aveva quasi un migliaio di residenti a tempo pieno; molti di loro erano artisti e poeti, anche se Sileno sosteneva che fossero solo dei poseurs. Per due volte avevano tentato di eleggerlo sindaco; per due volte Martin Sileno aveva declinato l'invito e aveva imprecato a gran voce contro i futuri elettori. Ma l'anziano poeta continuava a mandare avanti le cose, a dirigere i lavori di restauro, a giudicare le controversie, ad assegnare alloggi e a programmare voli di rifornimento da Jacktown e da punti più a sud. La Città dei Poeti non era più la Città Morta.