I Canti di Hyperion non facevano segreto delle molteplici identità di questi dèi: i Titani erano facilmente riconoscibili come gli eroi della breve storia della razza umana nella galassia, gli usurpatori dell'Olimpo erano le IA del TecnoNucleo, il campo di battaglia si estendeva per i continenti, gli oceani, le rotte aeree dei mondi della Rete. Fra tutto questo, il mostro Dite, figlio di Saturno ma ansioso di ereditarne con Giove il regno, dava la caccia alla preda, mietendo dèi e mortali.
I Canti riguardavano anche la relazione fra creature e creatore, l'amore tra genitore e figli, fra artisti e la propria arte, tutti creatori e creazioni. Il poema celebrava l'amore e la fedeltà, ma pencolava sull'orlo del nichilismo, suggerendo la costante minaccia di corruzione per amore del potere, dell'ambizione umana e dell'hubris intellettuale.
Per più di due secoli standard Martin Sileno aveva lavorato ai Canti. Aveva scritto le parti migliori proprio in quell'ambiente: la città abbandonata, i venti del deserto che gemevano come sinistri cori greci sullo sfondo, la minaccia sempre presente di un'improvvisa interruzione da parte dello Shrike. Salvandosi la vita, andandosene, Sileno aveva abbandonato la propria musa e condannato al silenzio la propria penna. Iniziando a lavorare di nuovo, seguendo quel sentiero sicuro, quel circuito perfetto che solo uno scrittore ricco d'esperienza aveva provato, Martin Sileno si sentì tornare alla vita… vene che si dilatavano, polmoni che si riempivano più a fondo e assaporavano l'intensa luce e l'aria pura senza accorgersi della loro presenza, godendosi ciascun graffio dell'antica penna sulla pergamena, la montagna di pagine già scritte ammucchiate dappertutto sul tavolo circolare, con pezzi di mattone a fungere da fermacarte, mentre la storia fluiva di nuovo liberamente, l'immortalità chiamava a ogni strofa, a ogni verso.
Sileno era giunto alla parte più difficile e più entusiasmante del poema, la scena dove i conflitti infuriavano tra mille paesaggi, intere civiltà erano state distrutte e rappresentanti dei Titani avevano chiesto tregua per incontrarsi e negoziare con i gravi eroi olimpici. In quest'ampio panorama avanzavano Saturno, Iperone, Cotto, Giapeto, Oceano, Briareo, Mimo, Porfirione, Encelado, Reto e altri… le loro ugualmente titaniche sorelle Teti, Febe, Teia e Climene… e dall'altra parte i tratti dolenti di Giove, di Apollo e della loro genia.
Sileno non conosceva la conclusione di questo poema fra i più epici. Ora continuava a vivere solo per terminare il racconto… aveva fatto così per decenni. I sogni giovanili di fama e di ricchezza erano spariti lavorando come apprendista del Verbo (aveva guadagnato fama e ricchezza oltre misura, e questo aveva rischiato di ucciderlo, aveva ucciso davvero la sua arte) e per quanto sapesse che i Canti erano l'opera letteraria più bella della sua epoca voleva solo terminarli, per conoscere egli stesso la conclusione e per mettere ogni strofa, ogni verso, ogni parola nella forma più elegante, più chiara, più bella possibile.
Ora scriveva febbrilmente, quasi folle di desiderio di terminare il lavoro che per lungo tempo aveva ritenuto interminabile. Le parole e le frasi scorrevano dall'antiquata penna all'antiquata carta; le strofe balzavano alla vita senza sforzo, i canti trovavano la propria voce e si terminavano da soli senza bisogno di revisione, di pausa per l'ispirazione. Il poema si dispiegava con velocità sconvolgente, con rivelazioni sorprendenti, con bellezza da mozzare il fiato, sia nelle parole sia nelle immagini.
Sotto la bandiera di tregua, Saturno e l'usurpatore, Giove, si confrontarono al tavolo delle trattative, una lastra di marmo tagliato a spigolo vivo. Il dialogo fu epico e semplice insieme; le giustificazioni per l'esistenza e le spiegazioni per la guerra crearono il dibattito più bello dai tempi del Dialogo meliano di Tucidide. All'improvviso qualcosa di nuovo, di assolutamente non programmato da Martin Sileno in tutte le lunghe ore di riflessione senza ispirazione, entrò nel poema. Tutti e due i re degli dèi espressero paura per un terzo usurpatore, una terribile forza esterna che minacciava la stabilità del regno dell'uno e dell'altro. Sileno guardò, completamente stupefatto, i personaggi creati in mille e mille ore di sforzi sfidare la sua stessa volontà, stringersi la mano e stabilire un'alleanza contro…
Contro che cosa?
Il poeta esitò, bloccò la penna, si rese conto di vedere a stento la pagina. Da un po' di tempo scriveva nella penombra e ora il buio era sceso del tutto.
Sileno tornò in sé permettendo al mondo di precipitarsi di nuovo intorno a lui, un processo simile al ritorno ai sensi dopo un orgasmo. Ma la discesa dello scrittore al mondo era più dolorosa, al momento del ritorno, fra una scia di nubi di gloria che si dissipavano rapidamente nel flusso mondano di banalità sensoriali.
Sileno si guardò intorno. La vasta sala da pranzo era buia, a parte il bagliore capriccioso delle stelle e di remote esplosioni che penetrava dai vetri e fra l'edera in alto. I tavoli erano semplici ombre; le pareti, distanti trenta metri in ogni direzione, erano ombre più scure merlettate dalle tenebre varicose delle liane del deserto. All'esterno della sala da pranzo, il vento della sera si era alzato, vociava ora più forte, a solo di contralto e di soprano cantati dalle travi spaccate e dagli squarci nella cupola in alto.
Il poeta sospirò. Nello zaino non aveva torce a mano. Aveva portato solo acqua e i Canti. Sentì lo stomaco brontolare per la fame. "Dov'è, quella maledetta di Brawne Lamia?" Ma appena lo pensò, capì d'essere lieto che la donna non fosse tornata a prenderlo. Lui aveva bisogno di restare in solitudine per terminare il poema… a quel ritmo, gli sarebbe bastato un giorno, forse solo quella notte. Qualche ora, e avrebbe terminato il lavoro della vita, pronto a riposare un poco e a godere delle piccole cose di ogni giorno, le banalità della vita che per decenni ormai erano state solo un'interruzione del lavoro che non avrebbe potuto completare.
Martin Sileno sospirò di nuovo e cominciò a sistemare nello zaino pagine manoscritte. Da qualche parte avrebbe trovato luce… avrebbe acceso un fuoco, a costo di usare come combustibile gli antichi arazzi di re Billy il Triste. Avrebbe scritto all'aperto, alla luce della battaglia spaziale, se necessario.
Strinse in mano le ultime pagine e la penna; si girò a cercare l'uscita.
Qualcuno era fermo con lui nel buio della sala.
"Lamia" pensò Sileno, mentre sollievo e delusione facevano a pugni tra loro.
Ma non era Brawne Lamia. Sileno notò la distorsione, la massa superiore e le gambe troppo lunghe, il gioco della luce delle stelle su carapace e spine, l'ombra di braccia sotto le braccia e soprattutto il bagliore color rubino di cristallo acceso dall'inferno, nel punto dove dovevano esserci gli occhi.
Sileno emise un gemito e tornò a sedersi. — Non adesso! — gridò. — Sparisci, maledizione ai tuoi occhi!
L'alta ombra si avvicinò senza rumore di passi sulla fredda ceramica. Il cielo s'increspò di energia rosso sangue e ora il poeta vide le spine e le lame e le spire affilate.
— No! — gridò Martin Sileno. — Mi rifiuto. Lasciami stare.
Lo Shrike venne più vicino. La mano di Sileno si mosse, alzò di nuovo la penna e scrisse, sul margine inferiore dell'ultima pagina: È ORA, MARTIN.
Il poeta fissò le parole appena scritte, soffocò l'impulso a sogghignare come un demente. Per quanto ne sapeva, lo Shrike non aveva mai parlato… non aveva mai comunicato con nessuno. Se non tramite i mezzi appaiati del dolore e della morte. — No! — gridò di nuovo. — Ho del lavoro da fare. Prendi un altro, maledizione a te!
Lo Shrike avanzò ancora di un passo. Il cielo pulsò di silenziose esplosioni al plasma; riflessi gialli e rossi, simili a rivoli di vernice, corsero lungo il petto e le braccia argento vivo della creatura. La mano di Martin Sileno si contorse, scrisse di traverso sul messaggio precedente: È ORA, MARTIN, ADESSO.