L'ombra degli alti picchi s'allungava per chilometri sulla sabbia, quasi fino alla città morta. La Valle delle Tombe e le pietraie languivano ancora nella luce della sera, massi e basse formazioni rocciose lanciavano una confusione d'ombre. Da quel balconcino Lamia non scorgeva le Tombe, ma solo, di tanto in tanto, uno scintillio riflesso dal Monolito. Provò di nuovo il comlog, lo maledisse quando ottenne solo statiche e confusi rumori di fondo, tornò dentro per scegliere le provviste e caricarle.
Prese quattro confezioni base, avvolte in flussoschiuma e in fibroplastica prestampata. Nel Castello l'acqua non mancava (i canali per raccogliere la neve disciolta, molto in alto, erano una tecnologia impossibile da distruggere) perciò Brawne riempì tutte le bottiglie che aveva portato con sé e ne cercò altre. L'acqua era la prima necessità. Brawne maledisse Sileno perché non l'aveva accompagnata: il vecchio avrebbe potuto portare cinque o sei bottiglie piene.
Era pronta a partire, quando udì il rumore. C'era qualcosa, nella Grande Sala, fra lei e la scalinata. Lamia si mise in spalla l'ultimo zaino, estrasse dalla cintura la rivoltella paterna e scese lentamente i gradini.
La Sala era deserta; gli araldi non erano tornati. Pesanti arazzi, mossi dal vento, sventolavano come bandiere marce sopra la confusione di cibi e di posate. Contro la parete più lontana, una statua gigantesca librata a mezz'aria, tutta cromo e acciaio, raffigurante la faccia dello Shrike, ruotava sotto la brezza.
Lamia percorse lo spazio aperto, girandosi di scatto quasi ogni secondo, in modo da non dare mai a lungo la schiena a un angolo buio. All'improvviso un grido la immobilizzò.
Non era un grido umano. L'ululato passò negli ultrasuoni e oltre: Lamia rabbrividì e strinse con dita livide l'automatica. Di colpo il grido s'interruppe, come se avessero sollevato dal disco il braccio con la puntina.
Lamia vide da dove era giunto il suono. Al di là del tavolo per i banchetti, al di là della scultura, sotto le sei grandi vetrate dipinte, dove la luce morente faceva gocciolare colori soffusi, c'era una porticina. La voce era giunta da lì, come sfuggita da una prigione sotterranea o da una cantina.
Brawne Lamia era curiosa. Tutta la sua vita era stata un conflitto con una curiosità superiore alla norma, culminato nella scelta della professione, obsoleta e talvolta divertente, di investigatrice privata. Più di una volta la curiosità l'aveva messa in situazioni imbarazzanti o nei guai. E più di una volta l'aveva ripagata con conoscenze che pochi possedevano.
Non quella volta.
Lamia era venuta a cercare cibo e acqua indispensabili. Non era possibile che uno degli altri fosse venuto fin lì… i tre più anziani non l'avrebbero preceduta neppure considerando la deviazione fino alla città morta… e tutto il resto non la riguardava.
"Kassad?" si domandò, ma represse il pensiero: quel grido non proveniva dalla gola del colonnello.
Si allontanò dalla porticina, tenendo pronta l'automatica; trovò gli scalini che portavano ai piani principali e scese con prudenza; attraversò con la massima furtività ogni stanza, anche se portava settanta chili di provviste e una quindicina di bottiglie d'acqua. Colse di sfuggita la propria immagine in un vetro sbiadito del piano inferiore… corpo tozzo pronto all'azione, rivoltella spianata e ondeggiante qua e là, un grande fardello di zaini in equilibrio instabile sulla schiena e appesi alle cinghie, bottiglie e borracce che sbattevano l'una contro l'altra.
Lamia non la trovò divertente. Trasse un sospiro di sollievo, quando uscì nella terrazza inferiore, all'aria fredda e rarefatta, pronta alla lunga discesa. Per il momento poteva fare a meno della torcia: il cielo della sera, all'improvviso pieno di nuvole sempre più basse, spargeva sul mondo una luce rosa e ambra, illuminava di un vivido riflesso perfino il Castello e le alture pedemontane.
Lamia scese la ripida scalinata due gradini per volta, tanto che i forti muscoli delle gambe cominciarono a dolerle prima di arrivare a metà. Non ripose l'automatica, ma la tenne pronta, casomai qualcosa scendesse dietro di lei o comparisse in qualche apertura della parete di roccia. Raggiunto il fondo, si allontanò dalla scalinata e guardò le torri e le balconate, mezzo chilometro più in alto.
Rocce cadevano verso di lei. Non solo rocce: doccioni, scalzati dagli antichi sostegni, rotolavano insieme con le pietre, facce demoniache illuminate dal riflesso del crepuscolo. Lamia si mise a correre, fra un ondeggiare di zaini e di bottiglie; capì di non avere il tempo di mettersi al sicuro prima che la frana la raggiungesse, allora si lanciò fra due bassi macigni appoggiati l'uno all'altro.
Gli zaini le impedirono di infilarsi tutta nell'apertura e Lamia si dimenò per allentare le cinghie; udì un frastuono terribile, quando le prime pietre colpirono terra alle sue spalle e rimbalzarono passandole sopra. Lamia spinse e tirò, con uno sforzo che strappò il cuoio, spezzò la fibroplastica; alla fine fu al riparo fra i due massi e tirò dentro zaini e bottiglie, decisa a non tornare più al Castello.
Pietre grosse come meloni grandinarono tutt'intorno. La testa fracassata di un orco di pietra rimbalzò più avanti e schiantò un piccolo masso a meno di tre metri. Per un momento l'aria fu piena di missili, e pietre più grandi si fracassarono contro il riparo; poi la valanga passò e rimase solo il picchiettio di pietre più piccole della frana secondaria.
Lamia si sporse per mettere meglio al sicuro gli zaini; una pietra grossa quanto il suo comlog colpì la parete rocciosa, schizzò quasi in orizzontale verso il riparo, rimbalzò due volte nella piccola grotta formata dai due massi e colpì Brawne alla tempia.
Lamia si svegliò con un gemito da vecchia. La testa le doleva. Fuori era notte fonda e, dalle fessure in alto, lampi di lontane scaramucce illuminavano l'interno del riparo. Lamia si toccò la tempia e sentì una crosta di sangue coagulato sulla guancia e sul collo.
Si tirò fuori dal crepaccio, lottò per superare la confusione di pietre cadute da poco, si sedette un momento, a testa bassa, resistendo all'impulso di vomitare.
Gli zaini erano intatti e solo una bottiglia d'acqua si era rotta. Lamia trovò l'automatica dove l'aveva lasciata cadere, nel piccolo spazio aperto non ingombro di rocce in frantumi. L'affioramento roccioso portava i segni e le cicatrici della breve e violenta valanga.
Lamia consultò il comlog. Era trascorsa meno di un'ora. Nessuno era sceso per portarla via o tagliarle la gola mentre giaceva svenuta. Lamia scrutò per un'ultima volta i bastioni e le balconate, ormai invisibili, riprese il carico e s'incamminò per il sentiero traditore, a velocità doppia.
Martin Sileno non era al limitare della città morta, quando Brawne Lamia deviò da quella parte. A dire il vero, Brawne non era stata molto convinta di trovarlo lì, ma si augurava che il poeta si fosse semplicemente stancato di aspettarla e avesse fatto da solo i pochi chilometri fino alla valle.
La tentazione di posare il carico, di lasciar cadere le bottiglie e di riposarsi un po' fu forte. Lamia vi resistette. Impugnò la piccola automatica e percorse le vie della città morta. Le esplosioni luminose bastavano a guidarla.
Il poeta non rispose ai richiami che echeggiarono fra le rovine, ma centinaia di piccoli uccelli che Lamia non riconobbe si levarono in volo, con un frullio d'ali bianche nel buio. Lamia percorse i piani inferiori dell'antico palazzo reale, lanciò richiami su per le scalinate, una volta sparò perfino un colpo, ma non vide traccia di Sileno. Attraversò cortili sotto pareti pesantemente coperte di liane rampicanti, gridò il nome del poeta, cercò segni che ne indicassero il passaggio. Una fontana le ricordò il racconto di Sileno… la notte in cui re Billy il Triste era stato portato via dallo Shrike; ma c'erano altre fontane e Brawne non fu sicura che fosse proprio quella.
Attraversò la sala da pranzo centrale, sotto la cupola in rovina, ma trovò solo buio e ombre. Udì un rumore. Si girò di scatto, automatica pronta; ma era solo il fruscio di una foglia o di un antico pezzo di carta sul pavimento di ceramica.