Il Console si avvicinò. — Cos'è? — Allungò la mano per toccare il cordone argenteo e, come Sol, la ritrasse di scatto. — Oddio, è caldo.
— Sembra vivo — convenne Sol. Aveva massaggiato le mani di Brawne e ora le schiaffeggiò leggermente le guance nel tentativo di farla rinvenire. La donna non si mosse. Sol si girò e seguì con il raggio luminoso il cordone serpeggiante nel corridoio d'ingresso, fin dove era visibile. — Non credo che Brawne si sia collegata volontariamente a questa roba.
— Lo Shrike — disse il Console. Si sporse più vicino per attivare la lettura dei dati biologici nel comlog al polso di Brawne. — Tutto normale, Sol, a parte le onde cerebrali.
— Cosa dicono?
— Dicono che è morta. Cerebralmente morta, almeno. Nessuna funzione di livello superiore.
Sol sospirò, si dondolò sui talloni. — Dobbiamo vedere dove porta il cordone.
— Non possiamo limitarci a staccarlo dalla presa di shunt?
— Guarda. — Sol illuminò la parte posteriore della testa di Brawne e scostò un ciuffo di ricci scuri. Lo shunt neurale, normalmente un disco di plastocarne largo alcuni millimetri con una presa di dieci micron, sembrava fuso: la carne sporgeva in un livido rossastro e si univa ai microcollegamenti del cavo metallico.
— Occorrerebbe un intervento chirurgico, per rimuoverlo — mormorò il Console. Toccò il rigonfiamento di carne. Brawne non si mosse. Il Console ricuperò la torcia e si alzò. — Resta con lei. Seguo il cavo all'interno.
— Usa i canali di comunicazione — disse Sol, pur sapendo quanto si erano dimostrati inutili, durante il flusso e il riflusso delle maree del tempo.
Il Console annuì e avanzò rapidamente, prima che la paura lo facesse esitare.
Il cavo di cromo serpeggiava lungo il corridoio principale, girava e scompariva al di là della stanza dove i pellegrini avevano dormito la notte precedente. Il Console lanciò un'occhiata dentro la stanza e illuminò per un attimo le coperte e gli zaini abbandonati nella fretta.
Seguì il cavo lungo la curva del corridoio; attraverso la porta centrale dove il passaggio si divideva in tre corridoi più stretti; su per una rampa e di nuovo giù per lo stretto passaggio che i primi esploratori avevano chiamato "strada di re Tut"; poi giù per una rampa; lungo un basso tunnel dove fu costretto a strisciare, posando con attenzione mani e ginocchia per non toccare il tentacolo metallico caldo come carne; su per un piano inclinato così ripido da costringerlo ad arrampicarsi come in un camino; lungo un corridoio più ampio di cui non ricordava l'esistenza, dove le pietre si inclinavano verso il soffitto e lasciavano cadere goccioline di condensa; e poi per una ripida discesa, rallentando solo a costo di lembi della pelle delle mani e delle ginocchia; strisciando infine per un tratto più lungo di quanto non sembrasse larga la Sfinge. Perdette del tutto il senso dell'orientamento e si affidò al cavo per trovare la strada al ritorno.
— Sol — chiamò infine, senza credere nemmeno per un istante che il trasmettitore avrebbe funzionato, tra la roccia e le maree del tempo.
— Eccomi — rispose l'anziano studioso, nel più fievole dei bisbigli.
— Sono andato molto avanti — mormorò nel comlog il Console. — In fondo a un corridoio che non ricordo di avere mai visto. Mi sembra di essere a grande profondità.
— Hai scoperto dove termina il cavo?
— Sì — rispose piano il Console. Si sedette e con il fazzoletto si asciugò il viso sudato.
— Un nesso? — domandò Sol, riferendosi agli innumerevoli nodi terminali dove i cittadini della Rete potevano collegarsi alla sfera dati.
— No. Sembra che quest'affare scorra dritto nella pietra del pavimento. Anche il corridoio termina qui. Ho provato a rimuovere il cavo, ma la giunzione è simile al punto dove lo shunt neurale è saldato al cranio. Sembra parte della roccia e basta.
— Vieni fuori — disse Sol, fra il gracidio della statica. — Proveremo a tagliarlo.
Nel tunnel umido e buio, per la prima volta nella sua vita, il Console si sentì sopraffatto dalla claustrofobia. Trovò difficile respirare. Era sicuro di avere alle spalle qualcosa che gli toglieva l'aria e bloccava l'unica via di ritirata. Udiva quasi il battito del proprio cuore, nello stretto passaggio di pietra dove si poteva solo procedere strisciando.
Respirò lentamente, si asciugò di nuovo il viso, respinse il panico. — Potrebbe uccidere Brawne — disse, fra una lenta boccata d'aria e l'altra.
Nesuna risposta. Il Console chiamò di nuovo, ma qualcosa aveva reciso il tenue legame comlog.
— Esco — annunciò nello strumento muto e si girò, facendo correre il raggio luminoso lungo il basso tunnel. Il cavo/tentacolo si era mosso, o si trattava di un semplice gioco di luce?
Il Console iniziò a strisciare rifacendo il percorso dell'andata.
Avevano trovato Het Masteen al tramonto, qualche minuto prima che la tempesta temporale si scatenasse. Il Templare barcollava, quando il Console, Sol e Duré l'avevano visto; ed era caduto privo di sensi, prima che lo raggiungessero.
— Portiamolo nella Sfinge — disse Sol.
In quel momento, come se il sole al tramonto avesse progettato la coreografia, le maree del tempo fluirono su di loro come un'ondata di nausea e di déjà vu. I tre caddero sulle ginocchia. Rachel si svegliò e si mise a piangere col vigore di una creatura appena nata e atterrita.
— All'imbocco della valle — ansimò il Console, tenendo in spalla Het Masteen. — Dobbiamo… uscire… dalla valle.
I tre si mossero verso l'imboccatura della valle e oltrepassarono la prima tomba, la Sfinge, ma le maree del tempo peggiorarono, soffiarono contro di loro come un orribile vento di vertigine. Dopo trenta metri, non riuscirono più a procedere. Caddero sulle mani e sulle ginocchia, Het Masteen rotolò sul sentiero di terra battuta. Rachel aveva smesso di piangere e si agitò a disagio.
— Indietro — ansimò Paul Duré. — Giù nella valle. Era… meglio… di sotto.
Ripercorsero la strada già fatta, barcollarono lungo il sentiero come tre ubriachi, portando ciascuno un carico troppo prezioso per lasciarlo cadere. Si riposarono un momento sotto la Sfinge, con la schiena contro un masso, mentre il tessuto stesso dello spazio e del tempo sembrava mutare e deformarsi intorno a loro. Era come se il mondo fosse stato una bandiera che qualcuno avesse srotolato con un gesto rabbioso. La realtà parve gonfiarsi e ripiegarsi, poi tuffarsi lontano e rifluire su se stessa come un'onda. Il Console lasciò il Templare disteso contro il masso e cadde ginocchioni, ansimò, artigliò in preda al panico il terreno.
— Il cubo di Moebius — disse il Templare, agitandosi, sempre a occhi chiusi. — Dobbiamo prendere il cubo di Moebius.
— Maledizione — riuscì a dire il Console. Scosse con rudezza Het Masteen. — A cosa ci serve? Masteen, a cosa ci serve? — La testa del Templare ciondolò, inerte. L'uomo era svenuto di nuovo.
— Lo prendo io — disse Duré. Il prete parve vecchissimo e malato, con il viso e le labbra livide.
Il Console annuì, si mise in spalla Het Masteen, aiutò Sol a rialzarsi, barcollò giù nella valle; le correnti di risucchio dei campi anti-entropici si indebolirono, mentre loro si allontanavano dalla Sfinge.
Padre Duré aveva risalito il sentiero e la lunga scalinata; barcollò fino all'ingresso della Sfinge, aggrappandosi alle pietre scabre come un marinaio si afferrerebbe alla gomena lanciatagli nel mare infuriato. La Sfinge parve traballare sopra di lui, prima s'inclinò di trenta gradi da una parte, poi di cinquanta dall'altra. Duré capì che era solo la violenza delle maree del tempo a distorcergli i sensi, ma questo bastò a farlo cadere in ginocchio e vomitare sulla pietra.