Era impossibile che esseri umani così impalati vivessero a lungo; doppiamente impossibile che sopravvivessero nel vuoto assoluto di quel luogo al di fuori del tempo e dello spazio. Però sopravvivevano e soffrivano. Kassad li guardò contorcersi. Erano tutti vivi. E tutti soffrivano.
Kassad percepì la sofferenza come un suono al di là dell'udito, un'enorme e incessante sirena antinebbia di dolore, come se migliaia di dita non addestrate pestassero migliaia di tasti per suonare un massiccio organo a canne di dolore. Il dolore era così palpabile che Kassad frugò il cielo ardente, come se l'albero fosse una pira o un enorme faro con le onde del dolore chiaramente visibili.
C'erano solo la cruda notte e la quiete lunare.
Kassad aumentò l'ingrandimento delle lenti e guardò di ramo in ramo, di spina in spina. Le persone che vi si contorcevano erano di tutt'e due i sessi e di ogni età. Portavano una varietà di abiti a brandelli e di cosmetici sbavati che spaziavano per molti decenni, se non per secoli. Kassad non aveva mai visto gran parte degli stili e ritenne di osservare vittime provenienti dal futuro. C'erano migliaia, decine di migliaia di vittime. Tutte vive. Tutte sofferenti.
Kassad si fermò, mise a fuoco un ramo a quattrocento metri dalla base, sopra un grappolo di spine e di corpi molto staccato dal tronco, e una singola spina lunga tre metri sulla quale si gonfiava un mantello viola ben noto. La figura si dimenò, si contorse, si girò verso Fedmahn Kassad.
Sotto gli occhi del colonnello c'era il corpo infilzato di Martin Sileno.
Kassad imprecò e strinse i pugni, con tanta forza da sentire male alle nocche. Cercò intorno a sé le armi, ingrandì la visione per fissare il Monolito di Cristallo. Laggiù non c'era niente.
Il colonnello Kassad scosse la testa, capì che la tuta era un'arma migliore di quelle che aveva portato su Hyperion; si mise a camminare verso l'albero. Non sapeva come l'avrebbe scalato, ma avrebbe trovato il modo. Non sapeva come avrebbe portato giù vivo Sileno — lui e tutte le vittime — ma l'avrebbe fatto o sarebbe morto nel tentativo.
Percorse dieci passi e si fermò sulla cresta di una duna impietrita. Lo Shrike era fra lui e l'albero.
Sotto il campo di forza color cromo della dermotuta, Kassad capì di essersi messo a ridere ferocemente. Quella era l'occasione attesa da moltissimi anni. Quella era la guerra degna cui aveva dato in pegno vita e onore vent'anni prima, nella cerimonia Masada della FORCE. Una lotta per proteggere gli innocenti. Kassad sogghignò, appiattì la costa della mano destra fino a renderla una lama argentea, avanzò di un passo.
"Kassad!"
Al richiamo di Moneta, Kassad guardò indietro. La luce ruscellò sulla superficie argento vivo del corpo nudo della donna, mentre Moneta indicava la valle.
Un secondo Shrike emergeva dalla tomba detta Sfinge. Più giù lungo la valle, uno Shrike uscì dalla Tomba di Giada. Luci crude mandarono lampi dalle punte e dalle lame, mentre un altro emergeva dall'Obelisco, a mezzo chilometro di distanza.
Kassad li ignorò tutti; si girò verso l'albero e il suo difensore.
Cento Shrike stavano fra Kassad e l'albero. Il colonnello batté le palpebre e altri cento comparvero alla sua sinistra; si guardò alle spalle e una legione di Shrike impassibili come statue era ferma sulle fredde dune e sui massi fusi del deserto.
Kassad si batté una manata sulla coscia. "Maledizione."
Moneta gli si accostò fino a toccargli il braccio. Le dermotute si fusero e Kassad sentì contro il braccio il calore della carne di lei. Con la coscia Moneta gli sfiorava la coscia.
"Ti amo, Kassad."
Lui guardò il viso dalle linee perfette, ignorò la confusione di riflessi e di colori che lo illuminava, cercò di ricordare la prima volta che l'aveva incontrata, nella foresta presso Agincourt. Ricordò i sorprendenti occhi verdi, i corti capelli castani. La pienezza delle labbra e come sapevano di lacrime, quando senza volerlo le aveva morsicate. Alzò la mano e le toccò la guancia, sentì il tepore della pelle sotto la tuta. "Se mi ami" le trasmise "rimani qui".
Poi il colonnello Fedmahn Kassad si girò e mandò un grido che solo lui poteva udire nel silenzio lunare… un grido che era in parte un urlo di ribellione dal lontano passato umano, in parte l'evviva degli allievi della FORCE al momento della promozione, in parte il grido di un karateka, in parte una pura e semplice sfida. Attraversò di corsa le dune, diretto all'albero di spine e allo Shrike proprio di fronte.
Adesso c'erano migliaia di Shrike sulle alture e nella valle. Artigli si aprirono di scatto all'unisono; la luce brillò su migliaia di lame taglienti come bisturi e di spine acuminate.
Kassad non badò agli altri e corse verso quello che gli sembrava il primo Shrike. Sopra la creatura, forme umane si contorsero nella solitudine della propria sofferenza.
Lo Shrike spalancò le braccia come per accoglierlo. Lame ricurve, nei polsi e nelle giunture e nel petto, parvero fuoruscire da foderi nascosti.
Kassad mandò un grido e superò gli ultimi metri.
28
— Non dovrei andare — disse il Console.
Con l'aiuto di Sol aveva trasportato Het Masteen, ancora privo di sensi, dalla Grotta alla Sfinge, dove padre Duré teneva d'occhio Brawne Lamia. Era quasi mezzanotte e la valle brillava della luce riflessa delle Tombe. Le ali della Sfinge tagliavano archi dal pezzo di cielo visibile sopra le pareti rocciose. Brawne giaceva immobile, l'osceno cavo serpeggiava nel buio della tomba.
Sol toccò la spalla del Console. — Ne abbiamo discusso. Dovresti andare.
Il Console scosse la testa e accarezzò pigramente l'antico tappeto Hawking. — Potrebbe portare due persone. Tu e Duré potreste raggiungere il punto dove è ormeggiata la Benares.
Sol resse delicatamente nella mano a coppa la testolina di Rachel e continuò a cullare piano la figlia. — Rachel ha due giorni. E poi, questo è il nostro posto.
Negli occhi del Console si leggeva la sofferenza. — Sarebbe il mio! — disse. — Lo Shrike…
Duré si sporse. La luminescenza della tomba gli dipinse l'ampia fronte e gli zigomi alti. — Figliolo, se resta qui non ha altro motivo che il suicidio. Se tenta di riportare la nave per la signora Lamia e per il Templare, aiuterà gli altri.
Il Console si strofinò la guancia. Era stanchissimo. — C'è posto anche per lei, padre, sul tappeto.
Duré sorrise. — Quafe che sia il mio destino, sento che lo incontrerò qui. Aspetterò che lei torni.
Di nuovo il Console scosse la testa, ma andò a sedersi a gambe incrociate sopra il tappeto e tirò verso di sé la pesante sacca da viaggio. Contò le razioni e le bottiglie d'acqua che Sol gli aveva preparato. — Sono troppe. A voi ne servono di più.
Duré ridacchiò. — Abbiamo cibo e acqua sufficienti per quattro giorni, grazie alla signora Lamia. Dopo, se dovremo digiunare… per me non sarà la prima volta.
— E se tornano Sileno e Kassad?
— Divideranno la nostra acqua — disse Sol. — Faremo un altro viaggio al Castello per rifornirci, se gli altri tornano.
Il Console sospirò. — E va bene. — Toccò gli appropriati disegni della trama di volo: il tappeto si irrigidì in tutti i suoi due metri e si alzò di dieci centimetri. Non si notò alcun tremolio dovuto all'incerto campo magnetico, se pure c'era.
— Avrai bisogno di ossigeno, per superare le montagne — disse Sol.
Il Console mostrò la maschera a osmosi contenuta nella sacca.