Oddio, era Spenser Reynolds! L'artista mimico che durante il nostro ultimo incontro aveva cercato di dominare la conversazione, nella cena al Treetops. Si era rasato completamente i capelli ricci e ben pettinati, lasciandosi solo un codino, secondo i dettami del Culto Shrike; ma il viso era ancora abbronzato e bello, anche se stravolto dalla rabbia simulata e dal fanatismo di un vero credente.
— Prendetelo! — gridò Reynolds, agitatore del Culto Shrike, sempre indicando me. — Prendetelo e fate in modo che paghi, per la distruzione delle nostre case, per la morte delle nostre famiglie, per la fine del nostro mondo!
Mi guardai davvero alle spalle, sicuro che quel pomposo poseur non parlasse di me.
Intanto una parte di spettatori si era mutata in folla tumultuante: un'ondata di persone vicino al demagogo urlante si mosse verso di me, fra agitare di pugni e volare di sputi, e quell'ondata ne spinse altre più lontano dal centro, finché le frange di folla si mossero anch'esse nella mia direzione per evitare di essere calpestate.
L'ondata divenne una massa urlante di rivoltosi; in quel momento, la somma dei quozienti d'intelligenza era molto inferiore a quella del più modesto componente singolo. La folla ha passioni, non cervello.
Non volevo fermarmi a spiegare loro il concetto. La folla si divise e cominciò a lanciarsi su per le ali della scalinata. Alle spalle avevo una porta sbarrata da assi di legno. Mi girai e provai ad aprirla. Era chiusa con un catenaccio.
La presi a calci; al terzo tentativo la porta si sfasciò. La varcai appena in tempo per sfuggire alle mani protese e mi lanciai di corsa su per una scala buia in un corridoio che puzzava di antico e di muffa. Mi giunsero grida e fracasso di legno fatto a pezzi, quando la folla demolì la porta.
Al secondo piano c'era un alloggio, anche se dall'esterno l'edificio era parso abbandonato. La porta non era chiusa a chiave. La spalancai, quando dalla rampa in basso mi giunse il rumore di passi.
— Per favore, aiuto… — Mi fermai di colpo. Nella stanza buia c'erano tre donne, forse tre generazioni femminili della stessa famiglia, perché si rassomigliavano un poco. Sedevano su poltrone cadenti, vestivano stracci luridi, tenevano le braccia distese, le dita livide strette su sfere invisibili; un sottile cavo metallico si arricciava fra i capelli canuti della donna più anziana e arrivava al pacchetto nero posto sul piano impolverato del tavolo. Cavetti identici si snodavano dal cranio della figlia e della nipote.
Neurocavodipendenti. All'ultimo stadio di anoressia da collegamento, a occhio e croce. Senza dubbio di tanto in tanto qualcuno veniva a nutrirle per endovena e a cambiare loro gli indumenti sporchi, ma forse la paura della guerra aveva tenuto lontano chi se ne occupava.
Il rumore di passi risuonò sulle scale. Chiusi la porta e salii di corsa altre due rampe. Porte chiuse a chiave o stanze con pozze d'acqua che sgocciolava da cannicci esposti. Iniettori vuoti di Flashback sparsi in giro come bulbi di bevande analcoliche. "Non è un vicinato di prima categoria" pensai.
Raggiunsi il tetto, con dieci passi di vantaggio sulla muta di inseguitori. Se per il distacco dal guru la folla aveva perso un poco dell'irrazionale passione, lo riguadagnò nello spazio buio e claustrofobico della rampa di scale. Forse aveva dimenticato perché mi dava la caccia, ma questo non rendeva più piacevole l'idea che mi catturassero.
Mi sbattei la porta alle spalle e cercai un chiavistello, qualcosa per barricare il corridoio. Non c'era chiavistello. Niente di tanto grosso da bloccare il vano della porta. Passi frenetici risuonarono sull'ultima rampa di scale.
Esaminai il tetto: miniriflettori parabolici per comunicazioni spaziali sparsi come funghi rugginosi capovolti, una corda da bucato dimenticata forse da anni, cadaveri decomposti di una decina di colombi, una Vikken Scenic vecchissima.
Raggiunsi il VEM prima che il più rapido degli inseguitori varcasse la porta. La Vikken era un pezzo da museo. Polvere ed escrementi di colombi oscuravano quasi il parabrezza. Qualcuno aveva rimosso i repulsori originali e li aveva sostituiti con apparecchiature a basso costo comprate al mercato nero che non avrebbero mai superato il collaudo. Il tettuccio di perspex era fuso e annerito sul retro, come se qualcuno l'avesse usato da bersaglio per allenarsi con armi laser.
Di maggiore e più immediata importanza, tuttavia, era il fatto che il VEM non aveva lucchetto a impronta del palmo, ma un semplice lucchetto a chiave, forzato da tempo. Mi lanciai sul sedile impolverato e cercai di sbattere la portiera: non si bloccò, ma rimase socchiusa, penzoloni. Non speculai sulle scarse probabilità che il VEM si mettesse in moto né su quelle, ancora più ridotte, di riuscire a trattare con la folla quando mi avesse strappato dalla macchina e trascinato di sotto… se non si fosse limitata a buttarmi giù dal tetto. Dalla piazza saliva il profondo ruggito della folla inferocita.
I primi a sbucare sul tetto furono un uomo tozzo in tuta cachi da meccanico, uno smilzo con l'abito nero opaco all'ultima moda di Tau Ceti, una donna terribilmente grassa che agitava quella che pareva una lunga chiave inglese, e un bassotto in divisa verde delle Forze di Autodifesa di Vettore Rinascimento.
Inserii nel diskey di avviamento la microcarta a priorità assoluta datami da Gladstone. La batteria mandò un gemito, lo starter di transizione brontolò e io chiusi gli occhi e mi augurai che i circuiti fossero a carica solare e ad autoriparazione.
Pugni sbatterono sul tettuccio, mani schiaffeggiarono il perspex ammaccato a pochi centimetri dal mio viso, qualcuno spalancò la portiera nonostante i miei sforzi per tenerla chiusa. Le grida della folla lontana sembravano il rumore di fondo di un oceano; le urla del gruppo sul tetto parevano le strida di gabbiani troppo cresciuti.
I circuiti di sollevamento si accesero, i repulsori inondarono di polvere e di escrementi di colombi la gente sul tetto; infilai la mano nell'onnicomando, mi spostai a destra, sentii la vecchia Scenic sollevarsi, vacillare, cadere, risollevarsi. Virai dritto sulla piazza, rendendomi conto solo in parte che gli allarmi del cruscotto suonavano e che qualcuno era rimasto appeso alla portiera aperta. Scesi in picchiata, sorridendo senza accorgermene quando l'oratore Reynolds del Culto Shrike si affrettò a scansarsi e la folla a disperdersi; poi mi alzai al di sopra della fontana, con una brusca virata a sinistra.
Il passeggero urlante non mollò la presa, ma la portiera cedette, per cui l'effetto fu identico. Notai che si trattava della cicciona, l'istante prima che lei e la portiera colpissero l'acqua da otto metri d'altezza, schizzando Reynolds e la folla. Portai il VEM in quota e ascoltai le unità di sollevamento da mercato nero brontolare contro la mia decisione.
Chiamate irose dal controllo locale del traffico si unirono al coro degli allarmi sul cruscotto; la vettura barcollò, quando la polizia rilevò i comandi di guida, ma con la microcarta toccai di nuovo il diskey e annuii di soddisfazione quando la leva onnicomando riacquistò il controllo del veicolo. Volai sopra la parte più antica e più povera della città, mantenendomi a poca distanza dai tetti e scansando guglie e torri con orologio, per tenermi al di sotto del campo radar della polizia. In una giornata normale, gli agenti addetti al controllo del traffico, su sollevatori personali e bastoni skimmer, sarebbero sciamati su di me e mi avrebbero già bloccato; ma a giudicare dalla folla nelle vie e dai tumulti intravisti nelle vicinanze dei terminex pubblici, quella non sembrava proprio una giornata normale.
La Scenic mi avvertì che la sua resistenza in volo ormai si contava in secondi; il repulsore di dritta cedette con uno schianto nauseante; mi diedi da fare con l'onni e col pedale del gas per far scendere la vecchia carretta in un piccolo parcheggio fra un canale e un grosso edificio sporco di fuliggine. Il posto era almeno a dieci chilometri dalla piazza in cui Reynolds aveva sobillato la folla, per cui mi parve più sicuro affrontare i rischi a terra… anche se al momento non avevo molta scelta.