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Don gonfiò le guance, sbuffò e tirò un sospiro.

Il padre di Chris era un medico famoso e lavorava in qualche prestigioso ospedale di New York; se avesse ascoltato sua madre, avrebbe dovuto portarla in un sacco di posti, in occasione del centesimo e qualcosa anniversario della città — il pic-nic della Festa di Ashford, le feste, i balli, i concerti, la partita di football, ovunque. Un’intera settimana di festeggiamenti. Ma anche se avesse voluto, sapeva di non avere nessuna possibilità.

Arrivando in anticamera, sul punto di girare a destra verso il salotto, udì la voce di suo padre e cambiò idea.

«Non me ne frega assolutamente niente di quello che pensi, Harry. Non ho intenzione di prendere posizione né in un senso né nell’altro.»

Stupendo, pensò Don tristemente, semplicemente stupendo.

La posizione si riferiva all’atteggiamento da adottare in una certa discussione: Harry era il signor Harold Falcone, il suo professore di biologia, nonché presidente del consiglio dei docenti.

«Ascoltami», stava dicendo suo padre, mentre Don sporgeva la testa dalla porta, «ho fatto enormi pressioni per te e per la tua gente da quando ho preso quel posto, e lo sai benissimo. Sono riuscito a ottenere i soldi per i laboratori, per le squadre e per la dannata manutenzione; per l’amore del cielo, non osare venire qui a dirmi che non voglio aiutarti.»

Norman Boyd era seduto sulla sua poltrona preferita, una mostruosità verde dal legno tutto graffiato e il cuscino floscio. Voltava le spalle a Don e la sua figura era rigida.

«Cosa? Cosa? Harry, maledizione, se mia madre non mi avesse insegnato l’educazione, sarei capace di riappendere per delle sciocchezze del genere. Come sarebbe a dire che non me ne frega un cazzo? Certo che me ne frega! Ma per una volta non puoi fare a meno di considerare solo il tuo interesse e renderti conto che mi trovo tra l’incudine e il martello? Santo cielo, vecchio mio, tu che mi urli fesserie in un orecchio e il consiglio che fa lo stesso nell’altro orecchio. Tu mi rimproveri se faccio una cosa e loro se ne faccio un’altra: e vengo criticato da tutti se non faccio assolutamente niente — che poi è esattamente quello che vorrei fare a volte, credimi.»

Si mise a tamburellare con le dita sulla cornetta, alzando lo sguardo verso il soffitto intonacato, poi si passò la mano libera nei capelli castani appena brizzolati. Sotto il maglione bianco a girocollo, il petto si alzò in un profondo sospiro; continuò a tamburellare sulla parte alta della coscia.

«Sarò presente alle trattative, certo. Te l’ho già detto.» Si mosse. «Io non…» Lanciò un’occhiata alle spalle. «Certo che il mio contratto deve essere rinnovato alla fine dell’anno. Lo so benissimo e lo sai anche tu, e anche il consiglio lo sa. Cristo! A quest’ora lo sanno tutti!» Vide suo figlio e abbozzò un sorriso. «Che cosa? Sì! Sì, dannazione, lo ammetto, sei contento? Non voglio rischiare il mio lavoro e il mio avvenire soltanto perché voi teste di cazzo non riuscite a giungere a un accordo durante l’estate. No», disse in tono agrodolce, «non mi aspetto il tuo aiuto anche qualora decidessi di presentarmi per quell’incarico.»

Fece una smorfia e mise giù il microfono. «Quel verme ha riattaccato. Non conosce certo le buone maniere, ed è strano questo in un insegnante. Salve, Don, stasera ti ho visto parlare ai bambini. Hai forse cambiato idea e hai deciso di fare l’insegnante continuando la tradizione di famiglia?»

«Papà», disse lui in tono freddo. «Papà, la settimana prossima ho un esame importante. Il signor Falcone è il mio professore.»

«Lo so.»

«Ma tu stavi urlando con lui.»

«Ehi, non ti farà niente, stai tranquillo.»

Don strinse con forza la lattina. «Dici sempre così.»

«E ho sempre avuto ragione, non è vero?»

«No», rispose a bassa voce. «No, non sempre.» E prima che suo padre potesse controbattere, aggiunse: «Ci vediamo domani. È tardi e la mamma vuole che vada a letto».

Salì le scale lentamente, nel caso che suo padre volesse raggiungerlo, ma si udiva soltanto il rumore di sua madre che portava il caffè e qualche voce di sottofondo. Udì pronunciare il suo nome una volta, prima di arrivare di sopra, ma non aveva nessuna intenzione di stare a origliare. Probabilmente sapeva di che cosa stavano parlando.

Suo padre si sarebbe chiesto se c’era qualcosa che non andava e sua madre gli avrebbe risposto che era solo dovuto al momento della crescita e che Donny era davvero in una posizione delicata e che forse Norm non avrebbe dovuto perdere la pazienza a quel modo con un insegnante del ragazzo. A quel punto suo padre avrebbe fatto una sfuriata, negando l’esistenza di qualsiasi problema, poi avrebbe capito e avrebbe rassicurato la moglie che nessuno degli insegnanti avrebbe osato far nulla, poiché avevano bisogno del suo appoggio per lo sciopero.

Ormai stava diventando una storia vecchia e risaputa.

Perfetto, pensò entrando in camera. Non sono più un figlio, sono un mezzo. Un asso nella manica. Se sbaglio, non è colpa mia, sono gli insegnanti che si comportano in modo imparziale; se prendo un bel voto, non è merito mio, sono gli insegnanti che gli leccano il culo. Splendido. Splendido davvero.

Sbatté la porta, accese la luce e salutò i suoi animali prendendo a calci il letto.

«Non capisco», disse Joyce Boyd, seduta sul divano, quando udì sbattere la porta. «È un ragazzo perfettamente normale e lo sappiamo con certezza, ma non va quasi più da nessuna parte. Se stasera non avessimo insistito, sarebbe rimasto in casa a giocare con i suoi dannati beniamini, di sopra.»

«Ma certo che esce», ribatté Norm, accendendosi una sigaretta e accavallando le gambe. «Ma con tutte le tue iniziative sociali e quel Circolo dell’Arte — per non parlare della roba per la Festa di Ashford — non stai abbastanza in casa per vederlo uscire.»

Lei strinse gli occhi. «Questa è un’accusa.»

«Sì, e allora?»

«Pensavo che fossimo d’accordo di non accusarci più.»

Lui osservò la punta della sigaretta, poi le ginocchia accavallate, e tolse della cenere che gli si era depositata sul petto. Il caffè era sul tavolo di fronte e si stava raffreddando. «Immagino che fossimo d’accordo.»

«Immagino che fossimo d’accordo», lo scimmiottò lei, accoccolandosi sulle gambe. Stancamente, si passò una mano sugli occhi. «Dannazione, Norm», disse con tono stanco, «faccio tutto quello che posso.»

«Certo», rispose lui senza troppa convinzione. «Quando ci sei.»

«Bene, e tu allora?» Le labbra, già sottili, scomparvero, quando le strinse. «Quando è stata l’ultima volta che hai passato una serata con lui, eh? Credo che quel povero figliolo non ti abbia visto per più di un paio d’ore nelle ultime due settimane.»

«Quest’anno scolastico è molto duro», le ricordò il marito in tono piatto. «E poi c’è la possibilità di uno sciopero. Oltretutto, mi vede tutti i giorni a scuola.»