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La porta era appena socchiusa e lasciava filtrare un fascio di luce dall’anticamera fin sulla pelosa coperta marrone. La luce risaliva sul letto, inchiodando il ragazzo sul materasso. Don si distese sopra le coperte, con la testa sul cuscino e le mani incrociate sullo stomaco, per controllare che i suoi beniamini fossero ancora lì con lui.

Sopra la testiera c’era il manifesto di una pantera distesa nella giungla e intenta a leccarsi una zampa, con lo sguardo sempre fisso verso l’obiettivo; sulla parete opposta, di fianco alla porta, c’erano alcuni manifesti di elefanti che trasportavano enormi tronchi in mezzo alla boscaglia: avevano le orecchie spalancate a ventaglio e le zanne molto appuntite e straordinariamente bianche. Ovunque, nella vasta stanza, c’erano fotografie e manifesti di leopardi e ghepardi che correvano, aquile che planavano, puma che cacciavano, c’era anche un cobra visto di spalle, per mettere in mostra gli occhi sulla pelle squamosa. Sul cassettone c’era una finta linee impagliata con i denti bene in vista; sull’altra cassettiera un leone in miniatura impagliato; negli spazi vuoti delle tre mensole ancora da finire c’erano delle statuine di gesso e plastica che aveva fatto e dipinto con le sue mani: artigli, denti, unghie e occhi. E sopra la scrivania, perpendicolare all’unica finestra della camera, c’era un grande manifesto incorniciato con un vetro antiriflettente — una strada di terra battuta fiancheggiata da immensi pioppi scuri che gettavano ombre sul terreno, ombre nell’aria che rendevano più cupo il cielo al crepuscolo e facevano sembrare più luminose le stelle; e lungo la strada, proveniente dall’orizzonte, un cavallo nero al galoppo, con gli zoccoli che emettevano scintille fra le pietre, le narici che fremevano, gli occhi socchiusi e le orecchie spinte indietro. Non aveva né briglie né cavaliere ed era il più maestoso cavallo che avesse mai visto.

I suoi beniamini.

I suoi animali.

Dopo averli osservati una seconda volta, si voltò nascondendo la faccia tra le braccia.

I suoi genitori non avevano più voluto avere animali in casa, dopo che Sam era morto e avevano regalato il pappagallino del ragazzo a una zia in Pennsylvania. Tutto per via dei ricordi; e sembrava non avere nessuna importanza che anche Don volesse bene a quell’uccellino silenzioso.

Quando aveva chiesto con insistenza un sostituto, di qualsiasi tipo — non era certo di gusti difficili — sua madre aveva affermato di avere una grave allergia per i gatti, e suo padre aveva cercato di convincerlo che in casa nessuno aveva abbastanza tempo per occuparsi di un cane in modo adeguato. I pesci erano noiosi, gli uccelli e le tartarughe procuravano un sacco di malattie esotiche inguaribili, mentre i criceti e le cavie erano troppo stupidi e non facevano altro che mangiare e dormire.

Aveva ormai deciso da tempo che non gliene importava niente; se i suoi genitori non erano entusiasti di ciò che aveva pensato di fare della sua vita, perché mai avrebbe dovuto fare tante storie solo per la mancanza di qualche animale?

Perché sì, disse a se stesso, solo per questo.

E improvvisamente era di nuovo estate, con il sole alto nel cielo, lui era da basso in salotto, molto eccitato. C’erano entrambi i suoi genitori che, interrotte le faccende domestiche per un attimo, aspettavano con ansia. A giudicare dall’espressione di sua madre, forse si aspettava che le dicesse di aver deciso di lasciare la scuola, di sposarsi, mentre suo padre era convinto che avesse messo incinta qualche ragazza.

«Ho deciso che cosa fare all’università», aveva annunciato con voce stridula per l’emozione, appoggiandosi con forza alla sedia di suo padre per scaricare i nervi.

«Bene», aveva detto Norman con un sorriso. «Spero che diventerai ricco, così mi potrai mantenere e io non rimpiangerò i tempi in cui lavoravo.»

Si era messo a ridere perché non sapeva esattamente cos’altro fare, e sua madre aveva sfiorato il braccio di Norm.

«Di che cosa si tratta, tesoro?» gli aveva chiesto lei.

«Voglio diventare dottore.»

«Perfetto, figlio di puttana!» aveva esclamato suo padre, trasformando il sorriso in una smorfia piena di orgoglio.

«Oh, mio Dio, Donald», aveva bisbigliato Joyce con gli occhi luccicanti.

«Sicuro», aveva detto, contento nel vedere che il peggio era passato e che non c’erano state scenate. «Amo gli animali e loro amano me; inoltre voglio imparare a conoscerli e a curarli. Riuscirò a farmi pagare per fare quello che mi piace, giusto? Quindi ho deciso che farò il veterinario.»

Il silenzio lo aveva colpito come una mazzata e si era reso conto soltanto dopo parecchi secondi che avevano capito un’altra cosa: avevano pensato che avesse intenzione di diventare medico.

Il sorriso di Joyce si era fatto forzato, ma aveva finto comunque di mostrarsi felice per la sua scelta; dopo un po’ suo padre lo aveva portato fuori e gli aveva detto per la millesima volta che era stato lui il primo della famiglia Boyd ad andare all’università e che Donald sarebbe stato il secondo. Sperava con tutto il cuore che il ragazzo sapesse che cosa stava facendo.

«Essere un insegnante e poi preside», aveva spiegato Norman, «è qualcosa di cui vado ovviamente orgoglioso, figlio mio. Fare il veterinario, be’, non è … be’, non è certo niente di speciale, se ci pensi bene. Voglio dire: secondo la mia idea della medicina, aiutare i gatti non è come aiutare dei bambini.»

«Ma io amo gli animali», aveva ribattuto lui con fare ostinato, «e non mi piace il modo in cui la gente li tratta.»

«Oh. Un altro dottor Dolittle, immagino», aveva ironizzato suo padre.

«Sì. Forse.»

«Don.» Aveva appoggiato la mano sulla sua spalla. «Voglio solo assicurarmi che tu sia veramente convinto. Decidere una cosa del genere è un passo molto importante.»

«Non lo avrei detto se non fossi stato convinto.»

«D’accordo, ma almeno riflettici sopra, okay? Come favore nei confronti miei e di tua madre. Siamo solo in agosto e hai ancora un anno davanti a te. E anche allora non dovrai decidere affrettatamente. Ci sono ragazzi che ci impiegano un sacco di tempo. Prenditi tutto il tempo che vuoi.»

Avrebbe voluto gridargli che ci aveva già pensato abbastanza, invece si era limitato ad annuire e se n’era andato, camminando e correndo per tutto il resto della giornata. Quando alla fine era tornato a casa, non si era più parlato del suo annuncio e da allora l’argomento non era stato più toccato.

Fece una smorfia nel letto: non era così stupido come pensava suo padre — sapeva bene che loro speravano ancora che cambiasse idea e decidesse di curare delle ricche, vecchie signore invece di vecchi barboncini.

Ciò che non sapevano era che lui non voleva curare barboncini, persiani, bassotti o siamesi: lui voleva lavorare con l’equivalente vivente degli animali che aveva in camera.

Avrebbero fatto il diavolo a quattro se l’avessero saputo.

Ma non gliene importava nulla, perché niente al mondo gli avrebbe fatto cambiare idea; ora voleva soltanto che smettessero di discutere.

Come se avessero sentito la sua preghiera, le voci tacquero. Lui si spogliò in fretta e si infilò nel letto. Fissò il soffitto. Si chiese se presto anche lui sarebbe entrato a far parte della categoria dei figli di divorziati, come Jeff Lichter, che viveva con il padre, o come Brian Pratt, che viveva con sua madre.

Una meraviglia, pensò, e si voltò sulla pancia, alzò la testa per osservare con un vago sorriso la pantera, poi il cavallo, poi la lontra sull’altra mensola. Non avevano dei nomi, ma improvvisamente gli venne da pensare a che cosa avrebbero detto Brian o Tar se avessero saputo che a volte parlava con quelle bestie. Non intere conversazioni, solo qualche parola. Ne toccava uno come portafortuna prima degli esami, o chiedeva a un altro di fargli incontrare la-donna-della-sua-vita in modo che gli altri ragazzi non lo prendessero più in giro, oppure chiedeva a un altro di fare in modo che lui potesse, svegliandosi una mattina, scoprire di essere stato trasformato in Superman.