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«Le hanno fatte murare» disse Barrett.

«Perché?»

«Non lo so. Forse…»

«Stiamo perdendo tempo» l’interruppe Fischer. Lasciò la mano di Florence e si mosse, vacillando.

Percorsero gli ultimi metri del sentiero ghiaiato e salirono i gradini del portico. Gli ampi scalini erano pieni di crepacci, da cui spuntavano muffe ed erbacce giallastre.

Si fermarono davanti al portone d’ingresso a doppio battente.

«Se si apre da sé, io torno a casa» disse Edith, cercando di apparire spiritosa. Barrett spinse la maniglia e cercò di aprire la porta, che però resistette. Guardò Fischer. «Le è successo, anche a lei?»

«Più di una volta.»

«Meno male che abbiamo la chiave, dunque.» Barrett l’estrasse da una tasca del cappotto e l’infilò nella serratura. Non girava. La sfilò e riinfilò più volte, cercando di trovare il punto giusto.

D’un tratto la chiave girò e la pesante porta cigolò sui cardini. Edith sobbalzò, Florence tratteneva il fiato.

«Ma che cos’è?»

Florence scosse il capo.

«Non è il caso di allarmarsi» disse Barrett.

Edith lo guardò sorpresa.

«Ha ragione suo marito, signora Barrett,» disse Florence «non c’è nulla di allarmante, in questo.»

Fischer, entrato per primo, cercò tastoni l’interruttore. Lo trovò. Udirono più volte lo scatto, ma non si accese niente. «E così, l’impianto sarebbe stato rimesso a posto» disse.

«Il generatore sarà troppo vecchio» disse Barrett.

«Un generatore?» Edith si mostrò di nuovo sorpresa. «Non ci arriva la corrente elettrica, qui?»

«Non valeva la pena di portarcela. Ci sono poche case in questa vallata» disse Barrett.

«Come hanno potuto installare il telefono?»

«È un telefono da campo» disse Barrett. Guardò dentro la casa. «Be’, Mister Deutsch dovrà procurarci un nuovo generatore di corrente, ecco tutto.»

«Lei pensa che si tratti di un guasto?» Fischer però pareva metterlo in dubbio.

«Certo» disse Barrett. «La rottura di un generatore antiquato non può essere classificata come fenomeno psichico.»

«E adesso che cosa facciamo?» domandò Edith. «Alloggeremo a Caribou Falls finché non avranno installato un nuovo generatore?»

«Ci vorranno diversi giorni» disse Barrett. «Ci arrangeremo con le candele.»

«Candele» fece eco Edith.

Barrett sorrise, a vederla fare quella faccia. «Solo per un paio di giorni.»

Ella annuì, gli restituì un pallido sorriso. Barrett guardò dentro la casa. «Il punto è, adesso,» disse «come trovare delle candele? Presumo ce ne debbano essere qui…» Si interruppe. Fischer aveva tirato fuori una torcia elettrica. «Ah!» disse.

Fischer diresse il raggio di luce della torcia all’interno della casa e, fattosi coraggio, ne varcò la soglia.

Barrett lo seguì. Oltrepassò il limitare, si arrestò tendendo le orecchie. Si volse, porse la mano a Edith. Ella entrò, a sua volta, nella casa, stringendogli forte la mano. «L’odore, qui dentro,» disse «è anche peggio che fuori.»

«È una casa molto vecchia, dove non si cambia aria da molto tempo» disse Barrett. «Eppoi c’è la caldaia che non si usava da ventinove anni.» Si volse a Florence. «Non entra, Miss Tanner?» le chiese.

Ella annuì, sorridendo appena. «Sì sì.» Respirò profondamente, si raddrizzò sulle spalle, entrò. «L’atmosfera qui dentro…» Il suo tono era lagnoso.

«Un’atmosfera di questo mondo, non dell’altro» disse Barrett, asciutto.

Fischer fece volteggiare il raggio di luce della torcia nell’oscurità dell’immenso vestibolo. Il sottile cono di luce si spostava a balzi qua e là, si soffermava qualche attimo su un mobile, su una suppellettile, su qualche fosco quadro alla parete, su arazzi patinati di polvere, illuminò uno scalone, ampio, che descriveva un semicerchio e si perdeva nell’oscurità del piano superiore, illuminò la balaustra di una specie di loggia che dominava l’ingresso, gettò qualche sprazzo di luce, lassù in alto, sul soffitto a cassettoni, fra le vaste fitte tenebre.

«Salve, umile dimora» celiò Barrett.

«Non è umile affatto» disse Florence. «Puzza di orgoglio.»

Barrett sospirò. «Puzzare, puzza si.» Guardò sulla sua destra. «Stando alla pianta della casa, la cucina dovrebbe trovarsi da questa parte.»

Attraversarono il vestibolo, e i loro passi echeggiarono cupi sul pavimento di legno, nel silenzio. Edith si teneva stretta a suo marito.

Florence si guardò intorno. «Lo sa che siamo qui» disse.

«Miss Tanner…» Barrett si accigliò. «Non pensi che io voglia imporle…»

«Mi scusi» disse Florence. «Cercherò di tenere per me certe osservazioni.»

Ora stavano percorrendo un corridoio: Fischer in testa, poi Barrett ed Edith, e per ultima Florence. Alla fine di quel corridoio c’era una porta dai battenti girevoli. Fischer spinse uno dei battenti, entrò in cucina e lo tenne aperto per gli altri. Quando tutti furono entrati, lasciò il battente che si richiuse, oscillando.

«Gran Dio» mormorò Edith, seguendo con lo sguardo il raggio di luce che Fischer spostava qua e là nella stanza.

La cucina misurava circa otto metri per sedici. Lungo tutto il suo perimetro si trovavano banconi di metallo e credenze di legno scuro, c’era un vasto acquaio, una gigantesca cucina con tre forni, un frigorifero in cui un uomo poteva entrare. Quasi al centro, simile a una enorme bara, c’era una specie di madia.

«Doveva dare molti ricevimenti» disse Edith.

Fischer puntò la torcia su un grosso orologio elettrico a muro, sopra la cucina. Le sue lancette erano ferme sulle sette e trentuno, di mattina o pomeriggio, chissà di quale giorno. Se lo chiese, Barrett, mentre si dava ad aprire i cassetti delle varie credenze. Florence e Edith, vicine, lo guardavano. Barrett spalancò uno sportello e Fischer diresse il raggio della torcia all’interno. «Spiriti genuini» disse, alludendo alle bottiglie allineate su una scansia, coperte di polvere. «Ne evocheremo qualcuno, dopo cena.»

Fischer tirò fuori qualcosa da un cassetto: un cartoncino ingiallito, dagli angoli consunti. L’esaminò.

«Che cos’è?» domandò Barrett.

«Il menù d’uno dei loro pranzi, quello del 27 marzo 1928. La lista comprende: zuppa di gamberi, animelle alla salsa, stufato di cappone, purea di cavolfiori e, per dessert, amandes en crème, ovvero mandorle tritate in chiara d’uovo e crema.»

Barrett schioccò le labbra. «Chissà che bruciori di stomaco, avranno avuto i suoi ospiti.»

«E non solo lo stomaco, gli avrà bruciato» disse Fischer, mentre tirava fuori da un cassetto un pacco di candele.

ore 12.19

Riattraversarono il vestibolo, ognuno con in mano una candela. Le fiammelle tremolanti proiettavano ombre inquiete e minacciose alle pareti.

«Questo dev’essere il salone» disse Barrett, precedendoli oltre un’arcata, amplissima e profonda.

Si arrestarono. Edith e Florence gettarono un’esclamazione. Barrett emise un lieve sibilo, sollevarono la candela per far più luce nell’ambiente.

Il salone misurava più di trenta metri per quindici, con il soffitto altissimo, pannelli di noce alle pareti fino a un’altezza di quasi tre metri e, quindi, blocchi di pietra scabra. Sul lato opposto all’ingresso c’era un mastodontico caminetto, la cui cappa e mensola erano di pietra scolpita.

La mobilia era antica, tranne per qualche sedia e sofà imbottiti secondo la moda degli anni Venti. In vari punti c’erano statue di marmo su piedistalli. In un angolo c’era un piano a coda da concerto. Al centro della sala c’era una tavola rotonda, dal diametro di circa sette metri, con intorno sedici sedie dagli alti schienali e, sospeso al centro, un grande lampadario. Posto ideale per sbtemare la mia attrezzatura, pensò Barrett. Il salone era stato ripulito da poco. Egli abbassò la candela. «Procediamo» disse.